There's no point to any of this. It's all just a... a random lottery of meaningless tragedy and a series of near escapes. So I take pleasure in the details. You know... a Quarter-Pounder with cheese, those are good, the sky about ten minutes before it starts to rain, the moment where your laughter become a cackle... and I, I sit back and I smoke my Camel Straights and I ride my own melt.

mercoledì 31 ottobre 2012

Edward mani di forbice: quando a vincere è l’amore impossibile



Nell’ormai lontano 1990, il maestro Tim Burton, già dietro la macchina da presa con Beetlejuice e Batman, firmò il suo terzo lungometraggio, Edward mani di forbice, emblema del suo cinema visionario e incantato.
Sceneggiatura a quattro mani con
Caroline Thomson, autrice di libri per bambini, musiche affidate all’ineguagliabile Danny Elfman e nel cast due giovani attori ancora un po’ acerbi ma di indubbio talento, Johnny Depp (Edward) e Winona Ryder (Kim). 
In questa pellicola d’inestimabile bellezza, la scenografia smette di essere un semplice sfondo e diventa il punto focale della scena, prendendo letteralmente vita accanto al protagonista e abbandonando il ruolo di semplice cornice.
Fascino e magia in una delle storie d’amore più belle del grande schermo, il racconto delicato e malinconico di un (non) uomo incredibilmente sensibile e gentile, timido e trasognato, e della donna della quale è innamorato, sognatrice disillusa che accanto a lui riscopre il suo lato innocente e fanciullesco in quella che è la disperata rincorsa a un amore impossibile.
Una fiaba moderna che assume inevitabilmente il ruolo di critica alla società contemporanea, borghese e superficiale, che si oppone irragionevolmente nei confronti delle diversità, contro chi sceglie di non omologarsi ai dettami che con prepotenza cerca di imporre.
La storia di un amore incompreso, complicato, impossibile.
Un amore capace però di trionfare su difficoltà e pregiudizi. 
Una storia che riesce a scaldare il cuore, a far sognare, a commuovere in tutta la sua semplicità.
Il piccolo grande capolavoro di uno dei migliori registi degli ultimi anni.
Una favola indimenticabile, ieri come oggi.


Come fai a sapere che lui è ancora vivo?
Non lo so, non ne sono sicura, ma io credo che lo sia. Vedi, prima che lui venisse in questa città la neve non era mai caduta, ma dopo il suo arrivo è caduta. Se ora lui non fosse lassù, non credo che nevicherebbe così. A volte può vedermi ancora ballare tra quei fiocchi.

lunedì 29 ottobre 2012

Sexy divi del piccolo schermo


Tra una chiacchiera e l’altra sul mondo telefilm, tra nuovi pilot e season premiere, noi donzelle appassionate di serie tv, sulla pagina Facebook dell’Accademia dei Telefilm, ci siamo dilettate giorni fa a eleggere il nostro “Mister Telefilm”.
Su suggerimento di Alessia Barbiero (giornalista e blogger per Linkiesta), che ha lanciato l’amo qui, oggi anche io stilerò la mia personalissima classifica dei cinque personaggi maschili più sexy del mondo della serialità d’oltreoceano.
Preparatevi quindi a un post dall’alto contenuto testosteronico in cui vi svelerò quali sono, secondo me, i cinque personaggi più hot del piccolo schermo!



Quinta posizione per il biondissimo Chad Michael Murray: occhi da cerbiatto, muscoli scolpiti e voce rauca, il suo fascino mi catturò sin da quando, in Dawson’s Creek, interpretò il ruolo Charlie, cantante rock e latin lover innamoratpo dell’odiosa Joy Potter.
Standing ovation anni dopo in One Tree Hill, nei panni del dolce Lucas Scott, il ragazzo da sposare: scrittore di talento nonché giocatore di basket sexy e palestrato. Che volete di più? Certo, devono piacervi i biondi, sennò non potete capire!


Al quarto posto un attore sicuramente meno noto rispetto agli quattro della classifica, ma altrettanto sexy: Jonathan Tucker.
Qualcuno lo ricorderà per il ruolo di Tommy Donnelly in The Black Donnellys, strepitosa (e ahimè, brevissima) serie del 2007 cancellata ingiustamente dopo una stagione appena.
Di recente, dopo una fugace apparizione in Royal Pains, Jonathan è apparso in Parenthood, serie che tra l’altro amo particolarmente.



Matt Bomer apre il podio e si piazza di diritto al terzo posto: sguardo penetrante, corpo statuario, aria furba e portamento da fotomodello.
Gay o meno, in White Collar è impossibile resistergli ed era impossibile farlo sin dai tempi di Chuck, quando interpretava il ruolo di Bryce Larkin, aveva dato riprova del suo naturale e innato fascino.



Al secondo posto, l’aitante Scott Speedman: chi non lo ricorda nel ruolo di Ben in Felicity? Ma soprattutto, chi di voi, tra lui e Noel, avrebbe avuto dubbi su chi scegliere? Felicity su, sii onesta!
Oggi, Scott ci delizia col suo sguardo magnetico e i suoi muscoli di ferro, in Last Resort, e non c’è che dire: se possibile, la divisa lo rende ancora più sexy! Irresistibile, c’è poco da aggiungere.



Senza alcun dubbio, senza alcuna esitazione, il titolo di “Mister Telefilm” va a lui, l’unico e solo Damon Salvatore di The Vampire Diaries: Ian Somerhalder.
Lo ammetto, già in Lost qualcosa di lui mi aveva colpito, ma è stato col ruolo del vampiro arrogante ma infinitamente romantico che mi ha rubato il cuore. L’ho detto e ribadito spesso: con lui regredisco miserevolmente a teenager. Sortisce in me lo stesso effetto che all’epoca riuscivano a scatenare solo Kirk Cameron prima e Luke Perry poi. Sexy, stronzo e inaffidabile: è il classico ragazzo dal quale tutte dovrebbe stare alla larga.
E al tempo stesso è il classico ragazzo del quale, tutte, alla fine invece si innamorano.


sabato 27 ottobre 2012

Torna Stracult&Stracotti!

Torna puntuale, come l'ora legale, la mia rubrica Stracult & Stracotti, la serie top e la serie flop della settimana, su Telefilm Cult, il blog di Leo Damerini!

Questa settimana, pollice in su, senza alcun dubbio per The Walking Dead, e pollice in giù per... Scopritelo a questo link e commentate sul blog  sulla pagina Facebook dell'Accademia dei Telefilm!

giovedì 25 ottobre 2012

Il Gioco dei Telefilm: il must have per tutti gli appassionati di serie tv


Siete pronti per un viaggio a 360° nel mondo delle serie tv?
Con il Gioco dei Telefilm, presto sarà possibile!
Oltre 700 domande di diverse categorie e difficoltà, per testare le vostre conoscenze telefilmiche e mettere alla prova la vostra astuzia e perché no, anche la vostra fortuna grazie agli imprevisti e le difficoltà previste da un regolamento ben strutturato e articolato  che non lascia nulla al caso.
Con la possibilità di scegliere una ben precisa epoca di riferimento, le domande del gioco riguarderanno serie tv di ieri e di oggi e interrogheranno il giocatore su curiosità, indiscrezioni su cast e trame, location, numeri e primati, nomi e cognomi dei personaggi più celebri del piccolo schermo.
L’obiettivo?
Puntare i riflettori sulle serie dimenticate del passato, su quelle meno conosciute e su quelle più fortunate, per dare risalto al mondo dei telefilm, che riunisce moltissimi appassionati di tutte le età.
Da Happy Days a Beverly Hills 90210 e Gossip Girl, da Lost a Doctor Who a The O.C. e CSI, nel Gioco dei Telefilm ce n’è davvero per tutti i gusti!
Per tutti gli appassionati, gli esperti o i semplici curiosi, la presentazione ufficiale del gioco è sabato 3 novembre al Lucca Comics con Leo Damerini e Fabrizio Margaria, autori del “Dizionario dei Telefilm”, fondatori dell’Accademia dei Telefilm e direttori del Telefilm Festival, presso lo stand della Ghenos Games (B602), la casa produttrice dell’attesissimo gioco.
Per l’occasione, il gioco sarà venduto al prezzo scontato di 25 euro e sarà autografato da Silver, autore dei disegni originali.
Il sabato pomeriggio sarà organizzata una partita dimostrativa che verrà replicata il giorno successivo: in palio per il vincitore, ovviamente il gioco!
Un gioco versatile, divertente e originale, adatto a ogni età, come spiegano proprio Damerini e Margaria: “Nel nostro immaginario "IL GIOCO DEI TELEFILM" nasce con l'intento di riunire più generazioni, formando squadre equilibrate composte da genitori, figli e nipoti, ciascuno preparato (chi più, chi meno) sulla propria epoca seriale. E' solo una suggestione, per carità. Nulla vieta di mettere da parte il tabellone e giocare solo con le carte a domanda-risposta seduti in circolo, sotto l'Albero di Natale come sotto l'ombrellone”.
Un gioco destinato a diventare il Trivial Game più divertente dell'anno!", come afferma il comunicato stampa del Lucca Comics, una novità imperdibile dedicata a tutti gli appassionati del mondo delle serie tv, la “settima arte bis” troppo spesso trascurata.

DA OGGI IN VENDITA ONLINE qui : http://bit.ly/TGMwsr

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martedì 16 ottobre 2012

The Walking Dead: record di ascolti per la premiere della terza stagione



Per sopravvivere non possiamo far altro che combattere.
Lottare, per non lasciarci la pelle.
Nel lavoro, in amore, nella vita.
A volte non abbiamo alternative.
Un po’ di coraggio, tanta rabbia, troppo rancore.
E quell’aggressività che non pensavamo neanche lontanamente di possedere, ci assale all’improvviso e sgorga fuori dalla nostra anima, con una forza irruenta e incontrollata.
La sequenza iniziale di Seed, prima puntata della terza stagione di The Walking Dead, è caratterizzata da 5 minuti di puro silenzio, un silenzio carico di intensità e significato, un silenzio che da solo, racconta tutto quanto.
Da quando Rick e i suoi hanno perso Dale e Shane e sono sopravvissuti al peggiore attacco dall’inizio della serie a oggi, sono trascorsi parecchi mesi.
Hanno faticosamente superato l’inverno, e come la corteccia degli alberi, anche la loro pelle col freddo e le intemperie si è ispessita e indurita.
I protagonisti sembrano ormai privi di emozioni, e nonostante all’apparenza appaiano impavidi e spietati, nel profondo nascondono paura, rassegnazione.
Sono esausti, ma disposti a tutto pur di sopravvivere. Guidati da un leader instancabile come Rick, accettano di buon grado le su decisioni, nonostante rischino di scontrarsi ogni minuto con la morte.
Sono feriti, sfiniti, disperati.
Una prigione infestata dagli zombie è la loro unica salvezza, e sono disposti a dormire nelle celle, come animali in gabbia, tra schizzi di sangue e cadaveri, pur di trovare qualche ora di riposo.
Sono una squadra, un plotone, sono assassini efferati ed esseri umani talmente disperati da non esitare neanche un minuto di fronte a una gamba da amputare, come dimostra Rick al termine dell’episodio, quando senza fermarsi un secondo a pensare, sferra l’accetta sulla gamba di Hershel di fronte lo sguardo impietrito della figlia Maggie.
La premiere di stagione segna un record incredibile per la AMC: 10,3 milioni di spettatori con un rating nella fascia 18-49 del 5,8 e siamo solo all’inizio.
Non c’è più una democrazia, questo è poco ma sicuro.
E ora più che mai, non sembra esserci scampo alla fine.

giovedì 11 ottobre 2012

Revolution: il flop targato NBC



Di Revolution avevamo già parlato a luglio poco dopo che la NBC aveva ordinato a J.J. Abrams e Erik Kipke di produrre la prima stagione. I rumors iniziali sulla trama, non avevano presagito nulla di buono, e oggi, dopo i primi 3 episodi, ne abbiamo avuto conferma.
Revolution è un miscuglio banale e noioso delle serie che l’hanno preceduta, proprio come avevamo ipotizzato in tempi non sospetti dopo la visione del trailer: da Flash Forward a Jericho, da Terra Nova a The Walking Dead, l’impressione generale è che gli autori abbiamo preso qualche idea qua e là e l’abbiano buttata dentro l’ennesimo telefilm scifi poco riuscito e per nulla convincente.
È un guazzabuglio di idee caotico e confuso, infarcito di personaggi e situazioni prevedibili, caratterizzato da una trama esile e da dialoghi talmente superficiali da risultare incredibilmente prevedibili.
I personaggi, per nulla accattivanti, riescono a tratti a essere addirittura irritanti, dalla protagonista Tracy Spiridakos (Charlie), espressiva quanto una statua di cera o se vogliamo quanto Kristen Stewart in Twilight, a Billy Burke (non per niente padre della Stewart nella saga) che dovrebbe in teoria interpretare il “duro” della serie, ma che in pratica è credibile quanto Paris Hilton nei panni di uno scienziato.
A poco serve la presenza di un attore fenomenale come Giancarlo Esposito (se ve lo siete perso in Breaking Bad, siete vivamente pregati di recuperare quanto prima) nel ruolo del capitano della milizia, poiché oscurato da cotanta mediocrità e inconsistenza nello script.
Poche idee, banali, superficiali e confuse, regalano a Revolution il titolo di peggior serie dell’autunno, bruciando lo show dopo una manciata di episodi appena, proprio come avvenne con il The River di Steven Spielberg (solo per citarne una) lo scorso anno.
Abrams cade ancora una volta, e dopo Undercovers e Alcatraz, aggiunge ai suoi ultimi flop anche Revolution, restando lì, aggrappato a Fringe e Person of Interest, rischiando ahimè, di compromettere il prestigio di attori come Giancarlo Esposito e Elizabeth Mitchell (reduce da un altro flop, V), coinvolgendoli in progetti tanto ambiziosi quanto effimeri.

mercoledì 10 ottobre 2012

The New York Five: ode alla Grande Mela



Recensire fumetti non è nelle mie corde, in famiglia a questo di solito pensa lui, nonostante per merito suo io abbia divorato e amato parecchie graphic novel fino a oggi.
Con The New York Five però, farò un’eccezione, viste le forti somiglianze con una serie tv.
Non mi dilungherò troppo a parlare dello sceneggiatore Brian Wood o del disegnatore Ryan Kelly, perché rischierei di scrivere castronerie, non essendo per nulla “esperta” del settore.
Vi parlerò invece delle protagoniste, delle loro storie e della città che le ha trasformate da matricole del college, a donne fragili e vulnerabile in perenne conflitto con loro stesse, le loro paure e le difficoltà della vita.
Lona, Merissa, Riley e Ren potrebbero essere senza alcun dubbio le protagoniste di Girls, la serie della HBO acclamata negli States.
Ma potrebbero anche essere quattro personaggi scritti e ideati da Woody Allen, o da un giovane regista audace e indipendente per il Sundance Festival.
La storia, dai toni fortemente indie, indaga e approfondisce presente e passato delle quattro ragazze, evidenziandone pregi, difetti e paure con una un’intensità tale, da renderle vicine, reali, incredibilmente vere.
New York fa da cornice a un romanzo corale che ingloba la città stessa nella trama, trasformandola, come nei migliori episodi di Sex and the City, in uno dei personaggi.
Ed è così che la Grande Mela diventa co-protagonista delle quattro giovani donne, con i locali alternativi che ospitano band emergenti , Washington Square e gli studenti che si riuniscono sulle sue panchine nei break tra una lezione e l’altra, le biblioteche affollate, i piccoli appartamenti in sub affitto Tribeca.
I disegni di Kelly esplorano la città in lungo e in largo, si soffermano su dettagli precisi, su quelle minuscole peculiarità che rendono New York unica.
Quelle piccole cose che fanno di New York il sogno di migliaia di persone.
Tra grattacieli e villette a schiera, caffetterie e gallerie d’arte, l’evolversi della vita e della psicologia di ogni singolo personaggio è portata alla luce con delicatezza e ironia, senza quella retorica “mucciniana” che in Italia, ahimè, ci propinano fino allo sfinimento.
The New York Five ricorre spesso al linguaggio dei teen drama, ma lo fa con una maturità tale da riuscire a rivolgersi a un pubblico più maturo, a scandagliarne i dubbi e i dilemmi generazionali senza scadere nella banalità, senza ricorrere a frasi fatte e melense alla Moccia o alla Volo.
Per tutti coloro che hanno amato New York a prima vista, per tutti coloro che, come il maestro Allen e i suoi seguaci, non smetteranno mai di amarla,  questo è il romanzo perfetto.

martedì 9 ottobre 2012

Partners: a volte il cast non basta

Difficilmente si può giudicare una serie solo dal pilot, nella maggior parte dei casi, occorrono almeno 4 o 5 episodi per tirare le somme, questo è certo.
E se già l’impresa è complicata per i drama, per le comedy diventa ancor più ardua, sia per la breve durata della puntata, sia perché riuscire a commuovere, spaventare o emozionare lo spettatore è molto più semplice che non riuscire a farlo ridere.
Spinta da queste premesse e dalla presenza di Sophia Bush (Brooke in One Tree Hill) nel cast, ho deciso a monte di andarci giù leggera con Partners, ma dopo aver visto i primi due episodi, mi trovo a dovermi tristemente ricredere.
Ideata da David Kohan e Max Mutchnick, creatori di Will&Grace e in onda sulla CBS, la sitcom si avvale di un cast molto noto sul piccolo schermo seppur, alla fine dei conti, per nulla convincente.
La Bush interpreta Ali, fidanzato dell’architetto Joe, cui presta il volto David Krumholtz, protagonista di Numb3rs e recentemente apparso in The Newsroom.
Nei panni di Louis, il migliore amico di Joe sin dai tempi dell’asilo, Michael Urie (celebre per il ruolo del civettuolo Mark nell’indimenticabile Ugly Betty), anche lui architetto e fidanzato con Wyatt, Brandon Routh che interpretò il cattivo Daniel Shaw in Chuck.
Il cast almeno all’inizio promette davvero bene, su questo non ci piove, ma il primo limite, la comedy lo riscontra laddove non riesce minimamente a discostarsi da Will&Grace in alcun passaggio.
Partners
infatti, sin dai primi minuti, ricorda inevitabilmente la serie con Debra Messing, dal punto di vista dei personaggi, dei dialoghi, dello humour e delle situazioni nelle quali i protagonisti si ritrovano.
Non fa ridere, non comunica nulla, non convince e se proprio dobbiamo dirla tutta, alla lunga (e su 20 minuti di durata è alquanto grave) annoia anche. Routh è inespressivo e piatto come suo solito (Dylan Dog ancora ringrazia) la Bush e Urie troppo, troppo simili ai personaggi interpretati nelle serie che li han resi famosi.
L’unico che vediamo rapportarsi con una situazione “nuova” a tutti gli effetti, è Krumholtz, ma da solo di certo non basta a dar spessore a una sitcom della quale il palinsesto televisivo avrebbe potuto tranquillamente fare a meno.



lunedì 8 ottobre 2012

Last Resort: la nuova serie della Abc è la miglior sopresa dell'autunno


Per gli appassionati di serie tv, settembre e ottobre sono i mesi più ricchi: tra
preair e pilot ce n’è per tutti i gusti, è il periodo migliore non solo per delineare le sorti della nuova stagione televisiva, ma anche per scegliere quali telefilm divorare per primi e quali invece lasciare in stand by per i periodi di “break” nei palinsesti.
A oggi, la migliore novità di questo autunno, sembra essere Last Resort, la nuova serie della Abc presentata nei giorni scorsi al Roma Fiction Fest, e pronta al debutto questa sera alle 21.55 su Fox (canale 111 di Sky).
Protagonista dello show, il capitano Marcus Chaplin (Andre Braugher) e la truppa del Colorado, sottomarino della marina militare americana in missione nelle acque dell’Oceano Indiano per recuperare una squadra.
La storia inizia quando, dopo aver ricevuto l’ordine di attaccare il Pakistan, il capitano Chaplin, spalleggiato dal suo vice Sam Kendal (Scott Speedman), si rifiuta di obbedire al governo USA e, scampato all’attacco di un altro sommergibile, si rifugia con la sua flotta su un’isola limitrofa che sceglie come “base” da “occupare” con la forza.
Dall’isola infatti, Chaplin comunica al suo paese (che nel frattempo gli dà la caccia), che lui e la sua squadra non esiteranno a sganciare missili nucleari qualora venissero attaccati dagli USA.
Ciò che colpisce subito di Last Resort, è senza dubbio il plot, convincente, originale e diverso dalle solite storyline al centro degli show di questi ultimi anni.
Gli showrunner Shawn Ryan (The Shield) e Karl Gajdusek (Oblivion), hanno però tra le mani una bella gatta da pelare visto il ritmo sincopato della regia (Martin Campbell, Kevin Hooks), quadro chiaro e fedele del caos che regna all’interno del sottomarino.
I dialoghi, ben strutturati seppur a tratti leggermente confusi, spesso si accavallano e per non perdere il filo della storia, non sono ammesse distrazioni e allo spettatore non è concesso di abbassare la guardia neanche per un minuto se non vuol perdere il filo della storia.
Last Resort è esattamente questo: un’ottima serie, intensa e intricata, con delle potenzialità incredibili, difficile da seguire e altrettanto complicata da descrivere, e il bello sta proprio qui, perché per lo spettatore stesso diventa una vera e propria sfida.
Lo show di Campbell ricorda per certi versi i romanzi di Tom Clancy e ha come punto di forza un cast di altissimo livello, a partire dal protagonista, Braugher (Salt, Passengers, The Mist), passando per il suo vice interpretato da uno strepitoso Speedman, che molti ricorderanno come il Ben di Felicity, fino ad arrivare a Robert Patrick (The Unit, Burn Notice, True Blood), COB tenuto prigioniero da Chaplin perché contrario a occupare l’isola.
La serie dopo due episodi appena, ha già iniziato a scavare a fondo nei personaggi, dando maggior priorità al passato e alle esperienze di vita di ogni singolo protagonista piuttosto che alle vicende politiche, tenute per ora ancora in ombra. Molti gli intrecci venuti a galla già dalla premiere di stagione e sviluppati lentamente ma con estrema precisione già nel secondo episodio.
Last Resort è un’avventura epica, corale, dove non manca nulla: è una serie densa di pathos, emozione, hype, azione.
Tra intrighi politici e conflitti morali su un’isola che ricorda inevitabilmente quella di Lost e che anche stavolta, nasconde moltissimi misteri, iniziano così le avventure di un leader e del suo gruppo di seguaci, soldati all’apparenza fedeli e valorosi tra i quali però, si nascondono non pochi traditori.
Il comandante Marcus Chaplin è pronto a combattere e a sacrificare tutto ciò che ha, in onore di quel paese che al primo errore però, non esita a dargli la caccia.
Con questo discorso, Chaplin si schiera contro gli Stati Uniti d’America:

I'm captain Marcus Chaplin of the U.S.S. "Colorado. A short time ago, my submarine was ordered to fire four nuclear I.C.B.M.s at Pakistan. These orders came through a secondary, less secure network.
With millions of lives at stake, I requested confirmation of the order be sent through the normal and proper channel. In response, an American attack sub, the U.S.S. "Illinois," fired on us and left my crew for dead at the bottom of the Indian Ocean.
From our submarine, we have watched as the fabric of trust between government and its people has been torn. And when this boat dared to question why a nation without the capability to directly harm the homeland was to be destroyed, elements of that government tried to kill the 150 volunteer sailors on my boat. And then these same elements continued on their course. A first strike. Unprovoked. We have all borne witness. We have commandeered the NATO early warning station on the island of Sainte Marina.
From this facility, we can see the movements of all the world's militaries. We are in control.
I am declaring a 200-mile no-man's-land around this island, effective immediately. As for myself and the men and women of the U.S.S. "Colorado"... We love our country. We would gladly die for what it represents. But we do not recognize or obey a government that tries to murder its own.
If the current United States executive or any other nation violates this perimeter, we have 17 more nuclear missiles aboard, and we will not hesitate to unleash fiery hell down upon you.
I give you my word. Test us, and we will all burn... together.
You've been warned."

giovedì 4 ottobre 2012

Reality: il nuovo film di Matteo Garrone è lo specchio dell'Italia di oggi



Quattro anni dopo Gomorra, Matteo Garrone torna in grande stile con una pellicola dai toni onirici, felliniani, a tratti teatrali, uno dei migliori prodotti italiani degli ultimi anni, prodotto dalla Fandango di Domenico Procacci.
Reality, questo il titolo del film che si è aggiudicato il Gran Prix 2012 allo scorso Festival di Cannes, racconta l’amara e surreale storia di un pescivendolo napoletano, padre di tre figli, marito fedele contornato da una famiglia invadente e numerosa, interpretato dall’ex ergastolano, improvvisatosi attore, Aniello Arena.
La vita di Pietro, questo il nome del bizzarro protagonista, cambia quando i parenti "caciaroni" lo convincono a partecipare a un provino per il Grande Fratello, un pomeriggio d’estate in un centro commerciale.
Per lui inizia così un lungo e “difficile” cammino verso il proprio fallimento personale (non entrerà mai, realmente, nella casa) che si trasformerà in pura follia.
Pietro rappresenta perfettamente l’italiano medio di oggi, Dio me ne voglia, non è mia intenzione generalizzare, così come non era negli intenti del regista far di tutta l’erba un fascio. Ma la verità è esattamente quella raccontata nel film, quella di un’Italia senza più valori dove la mercificazione del proprio io, vale più di qualsiasi altra cosa.
Un paese dove, quando eravamo fortunati, le ragazzine andavano a ballare il sabato pomeriggio con i pantaloncini attillati, il trucco pesante e gli orecchini a cerchio, mentre oggi vendono la propria immagine senza prezzo dietro a uno schermo, senza controllo, senza pudore. Viviamo in un’epoca dove tutto deve necessariamente essere raccontato al mondo esterno senza filtri, se non quelli appositamente studiati per sorprendere. Tutto è sventolato sul web, urlato ai quattro venti: cosa mangiamo, dove ci troviamo e con chi. Dove non è più possibile aver un animale domestico, un figlio e un nuovo paio di scarpe senza prima averlo scritto sul nostro profilo social preferito.
Viviamo in un’epoca dove la massima aspirazione di una ragazza è far la velina, e quella di un ragazzo diventare tronista da Maria De Filippi o la  star del Grande Fratello.
Garrone descrive le aspirazioni dei giovani (e non) di oggi con estrema e accurata attenzione, soffermandosi su ogni piccolo dettaglio per render ancor più autentica la realtà raccontata nel film.
In alcuni passaggi si lascia andare alle commedie di Eduardo De Filippo, in altri si avvicina sempre più al cinema di Federico Fellini e al mondo onirico da lui magistralmente portato in scena.
Tutto nel film funziona perfettamente: la regia, la sceneggiatura (scritta insieme a
Maurizio Braucci, Ugo Chiti e Massimo Gaudioso) le musiche di Desplat e le scenografie, fino alla superba fotografia del compianto Marco Onorato.
Le sequenze in piazza ricordano, inquadratura dopo inquadratura, le migliori opere del teatro italiano, i dettagli, a volte ossessivi, come la madre di Pietro che in ogni scena è intenta a impastare o friggere qualcosa, donano al film un aspetto ancor più vero, ancor più genuino e casereccio.
I “non luoghi” contemporanei portati in scena, dal centro commerciale agli studi televisivi, ispessiscono ancor più l’autenticità della pellicola, e la rendono vera, credibile, palpabile.
L’irrazionalità di Pietro diventa irrazionalità dello spettatore stesso, i minuti finali del film trasmetto ansia e angoscia, Pietro che osserva se stesso nel riflesso di un vetro appannato è il simbolo di un paese che si guarda allo specchio e non si riconosce più.

martedì 2 ottobre 2012

Sarah Jessica Parker in Glee è la regina incontrastata dell'episodio Makeover

Glee non convince né appassiona più, questo ormai è un dato di fatto.
Dopo una seconda stagione sottotono e una terza ancor meno convincente, la nuova sfida di Ryan Murphy è riuscire a far affezionare il pubblico a nuovi personaggi, nuove location, nuovi contesti.
Sfida facile quando si tratta di New York, più complicata invece per coloro i quali sono costretti a rimanere tra le quattro mura della McKinley.
Il numero di telespettatori resta buono, oltre 7 milioni, ma il rating scende vertiginosamente, e non è un buon segno.
Non è bastata Kate Hudson nei due episodi della premiere di stagione, forse però basterà Sarah Jessica Parker, che ha fatto il suo ingresso nella serie nella terza, attesissima puntata, Makeover, alzando notevolmente il livello dello show.
Rachel (Lea Michele) e Kurt (Chris Colfer) sono sbarcati nella Grande Mela e per realizzare i propri sogni, con il buon proposito però, di non dimenticare né sacrificare il passato o gli affetti più cari.
Le difficoltà non mancano, soprattutto per Rachel, per nulla avvezza alle mode di New York e da subito in conflitto con la sua insegnante alla Nyada, la Hudson appunto.
Ancora una volta, il personaggio interpretato dalla Michele si ritrova a essere IL pesce fuor d’acqua della situazione, escluso dal gruppo e incapace di socializzare con i compagni di corso.


Diversamente da lei, per Kurt il percorso a NY City appare da subito privo di ostacoli: chiamato nella redazione di Vogue.com per uno stage, le sue spiccate doti creative nella moda, gli consentono di entrare subito nelle grazie di Carrie, scusate volevo dire Isabelle, e iniziare la sua ascesa in un mondo completamente nuovo e diverso.
Nell’episodio in onda stasera alle 21.55 su Fox (canale 111 di Sky) “in contemporanea” (si fa per dire) con gli States, vedremo finalmente il debutto di Sarah Jessica Parker nel teen “musical” drama più chiacchierato del momento.
Impossibile distinguere Sarah da Carrie in questo caso, soprattutto per il ruolo che interpreta, perfettamente in linea con la scrittrice newyorkese appassionata ed esperta di moda che abbiamo ammirato per sei stagioni e due film di Sex and the City.
Look strepitoso, sguardo ammaliante, risulta impossibile non confonderla con Carrie, complici la sua risata inconfondibile e la gestualità così peculiare da risultare unica.
Sarah che si porta una mano sul petto per esprimere stupore e gioia e piroetta su stessa eccitata per un’idea brillante di Kurt, è Carrie di fronte a una Vuitton o a un paio di Manolo, inutile negarlo.
Non è Isabelle, ma Carrie, e in fondo, basta solo un po’ di immaginazione per volare con la fantasia e mandar giù la noia della restante metà dell’episodio e restare così incollati allo schermo.
Facile, come bere un bicchier d’acqua quando c’è la Parker nei paraggi, e tutti i fan che hanno apprezzato una commedia mediocre come Ma come fa a fare tutto”, sono certa che capiranno cosa intendo.
Anche una serie divenuta ormai noiosa e monotona, con la star di Sex and the City, può risollevarsi senza problemi, e questo Ryan Murphy lo sa bene, perché a lui, ultimamente, piace vincere facile e con Glee lo dimostrando giorno dopo giorno.
A questo punto servirebbe davvero poco per dare una sferzata definitiva allo show: basterebbe chiudere le porte della McKinley, lasciar andar via tutti quei personaggi inutili che faticosamente cercano di conquistarsi l’affetto dei telespettatori, e investire sui pezzi forti della serie. Con le guest star che Murphy continua a chiamare a corte, non ha bisogno certo di macchiette di contorno.


lunedì 1 ottobre 2012

Go On: la nuova dramedy della NBC con l'inimitabile Matthew Perry



Settembre ha portato una ventata di freschezza in casa NBC grazie a Go On, la nuova dramedy di Scott Silveri, sceneggiatore e produttore in passato di alcuni episodi di Friends, creatore e showrunner dello spin-off Joey nonché co-creatore di Perfect Couples.
Al centro della serie Ryan King, giornalista sportivo rimasto vedovo all’improvviso e costretto a frequentare un bizzarro gruppo di supporto per dimostrare di essere psicologicamente in grado di tornare al lavoro.
Nei panni di Ryan,
Matthew Perry, l’indimenticabile Chandler Bing in Friends, tornato finalmente sul piccolo schermo con un ruolo da protagonista dopo varie comparsate qua e là nel corso degli ultimi anni (la più recente in The Good Wife).
Ironico, spesso cinico e per nulla superficiale, Go On convince sin da pilot, nonostante la storyline principale non sia delle più originali.
Negli episodi successivi ciò che si evince subito è che il punto di forza dello show è senza dubbio l’innata verve comica del protagonista, capace di discostarsi pienamente dal personaggio che la reso famoso in tv, Chandler appunto, per dare piena vita a quello di Ryan King, presentatore radiofonico impertinente, testardo e un pizzico arrogante.
Il Go On del titolo si rifa alla sua volontà “di andare avanti” appunto, dopo il lutto che l’ha investito, senza autocommiserarsi o piangersi addosso più del dovuto.
Il variegato gruppetto di personaggi che Ryan incontra in “rehab” è composto da individui afflitti, chi più chi meno, da piccole o grandi tragedie quotidiane, che sia la difficoltà a relazionarsi agli altri, il superamento di un lutto o di un trauma psicologico così grave da condizionare una vita intera.
Traumi irrisolti, lasciati lì, in fondo al cuore a volte, a macinare infelicità, rabbia e rancore, proprio come accade a Ryan, incapace tutto sommato di affrontare la realtà. Perché come ci insegna Go On, l’ironia a volte non basta, anche se all’apparenza può sembrare la miglior arma, non è sufficiente da sola per ricominciare a vivere.
Perché volenti o nolenti, davanti a ogni difficoltà, abbiamo bisogno dell’aiuto delle persone a noi più vicine, o perché no, magari di uno sconosciuto incontrato un pomeriggio a un gruppo di supporto.
Anche se sulle prime ci sembra di potercela fare da soli, spesso non è così, spesso le lacrime servono, anche solo come valvola di sfogo, anche solo per buttar fuori il nostro dispiacere.
Non c’è retorica in Go On, nonostante possa apparire vagamente scontato o banale, ma c’è invece uno humour dal sapore amaro, talvolta così vero però, da farci venire gli occhi lucidi, senza neanche rendercene conto.   


Going, going, gone: al via la nona stagione di Grey's Anatomy


ATTENZIONE CONTIENE SPOILER SULL'EPISODIO 9X01 "Going, going, gone"


Si riparte, esattamente un mese dopo l’ennesima tragedia al Seattle Grace.
Grey’s Anatomy inaugura la nona (e si spera ultima) stagione con un episodio doloroso e difficile, lasciandoci alla fine con il solito sapore amaro in bocca e i consueti fiumi di lacrime da asciugare.
Stavolta però, la season premiere convince meno del solito sia pubblico che critica,  e le scelte di Shonda Rhimes in questo caso sembrano a dir poco azzardate.
Troppo dolore, troppa sofferenza, in alcuni passaggi troppa banalità.
Meredith nei panni del nuovo capo degli specializzandi ribattezzata “Medusa” per il suo comportamento ostile e severo non convince, così come non convince la dottoressa Bailey, totalmente in balia della sua tresca nelle stanzette dell’ospedale e apparentemente per nulla sconvolta dalle recenti sventure che hanno colpito il gruppo di medici.
Prevedibile lo shock di Cristina, volata lontano da Seattle e già in difficoltà con i nuovi colleghi, scontata la decisione di Alex di non lasciare invece pediatria, vista l’assenza di Arizona dai corridoi dell’ospedale.
Shonda ha deciso di dedicare l’episodio al buon dottor Sloan e alla sua inaspettata dipartita, una scelta piuttosto discutibile, che poteva essere evitata con un semplice (e soprattutto meno doloroso) addio del bel chirurgo al Seattle Grace dopo la morte di Lexie.
I disastri non vengono mai soli, si sa, e questa regola vale soprattutto in Grey’s Anatomy e la morte di Mark non è l’unico motivo per piangere e disperarsi nel corso degli interminabili 40 minuti dell’episodio.
Come un fulmine a ciel sereno, Arizona irrompe sullo schermo al termine della puntata per lasciarci a bocca aperta (nonostante si intuisca dalla prima inquadratura cosa le sia accaduto) nell’attimo esatto in cui, distesa a letto, solleva le lenzuola per mostrare al pubblico che le è stata amputata una gamba.
Cosa accadrà ora?
L’inimmaginabile probabilmente.
Nessun personaggio può dirsi “salvo”, nessuno può essere considerato “integro”.
Ognuno di loro ha una cicatrice, più o meno profonda, da rimarginare, ognuno una tragedia da superare, l’ennesima tragedia.
Il ritorno della Kepner e nuovi personaggi all’orizzonte sembrano la scelta più azzardata dell’autrice, e ci si domanda “perché”.
Perché investire in altri personaggi a una o due stagioni dalla fine, quando siamo tutti certi che nessuno di noi potrà mai affezionarsi a un insignificante nuovo specializzando quando Shonda ci ha portato via tutti i personaggi che amavamo.
Ridacci George, Lexie e Mark. O se proprio vuoi il colpo di scena, cara Shonda, in questo marasma generale, restituiscici almeno Izzie,  
Perché a questo punto, viste le tue decisioni opinabili e anche un bel po’ sconclusionate, cerca di restare un minimo coerente con la storyline, perché al pubblico, le “disavventure” di un anonimo gruppetto di specializzandi, non interessano per niente.
E poi per favore, basta lacrime, basta piagnistei, è pur sempre una serie tv, e noi fan non ce la facciamo più.