Se per gli agée, le sfumature dell’amore e della passione sono 50 circa e tutte derivate dal grigio, per gli adolescenti di oggi, o almeno per quelli raccontati da Alessandro D’Avenia, i colori predominanti in ogni rapporto, sono due: il bianco e il rosso.
Così nasce
il titolo del suo best seller d’esordio Bianca
come il latte rossa come il sangue, tradotto e pubblicato in oltre dieci
paesi.
Il
protagonista del romanzo, Leo, è un diciassettenne di origini romane che vive
con i genitori a Torino e si diletta, come la maggior parte dei ragazzi della
sua età, tra scuola, calcetto, ragazze e piccoli problemi quotidiani, su tutti
i brutti voti in alcune materie, i litigi con una madre fin troppo apprensiva e
un amore irraggiungibile che non lo fa dormire la notte.
Fin qui,
tutto potrebbe ricordare la classica storia “alla Moccia”, o peggio ancora
al classico film con la premiata coppia Vaporidis-Capotondi (o Crescentini,
dipende dal regista). La pellicola tratta dal romanzo di D’Avenia invece, va
aldilà della classica storia adolescenziale, nonostante alcune evidenti pecche
del genere che difficilmente potrebbe scrollarsi di dosso.
L’amore
impossibile di Leo, infatti, diversamente da molti altri, è reso tale dalla
leucemia, terribile malattia che giorno dopo giorno, sta portando via Beatrice,
la ragazza dei suoi sogni. Faccia a faccia con il “nemico”, il protagonista si ritrova
all’improvviso a doversi scontrare con la vita, con una realtà che sì,
raccontandola al cinema non può che apparire inevitabilmente banale, ma che
ahimè, non è poi così lontana da moltissime storie di tutti i giorni.
Alla regia
di Bianca come il latte rossa come il
sangue, un regista avvezzo alle storie sul mondo degli adolescenti, Giacomo
Campiotti, che già con Mai +
come prima, aveva tentato di raccontarci i ragazzi di oggi alle prese con i
crudeli drammi della vita, cercando di discostarsi da un genere sì popolare, ma
messo forse troppe volte alla gogna.
Partiamo da
un presupposto fondamentale: il film non è certo un capolavoro cinematografico,
così come il libro non brilla per originalità, poiché seppur ben scritto, si
appiattisce sul finale peccando in banalità e monotonia narrativa, a differenza
del secondo romanzo scritto dal D’Avenia, Cose
che nessuno sa, opera senza dubbio più matura e narrativamente più corposa.
Non siamo
di fronte a un Virzì o un Luchetti, questo è certo, ma nonostante difetti
evidenti, su tutti la colonna sonora invasiva e martellante dei Modà, disseminata in tutte le scene
clou, il film può vantare senza dubbio alcune caratteristiche interessanti.
Senza
dubbio, ammirevole la performance di Filippo Scicchitano (Leo) che, se
già in Scialla, film del 2011 di Francesco
Bruni, al fianco di Fabrizio Bentivoglio, aveva
dimostrato di avere le carte in regola per aprirsi uno spiraglio nel panorama
del cinema italiano, in Bianca come il latte, dà ulteriore riprova della sua
bravura.
Seppur
impostato in alcune scene, il giovane attore, classe ’93, convince grazie al
suo fare ingenuo e scanzonato, e riesce ad affermarsi e a convincere lo spettatore
soprattutto nella prima parte del film, quella più leggera e fluida, che non
nella seconda, quella più drammatica poiché legata alla malattia della
protagonista, in cui tutta la sua inesperienza viene fuori e lo fa sembrare, in
alcuni punti, un pesce fuor d’acqua.
La sua
apparente superficialità però, non stona affatto con il carattere del protagonista
stesso, un ragazzino costretto a diventare adulto troppo in fretta e a disagio
con la realtà che la vita gli pone davanti.
Notevole
anche il bel Luca Argentero, nei panni del professore mentore di Leo, che
assume via via sempre più il ruolo di un amico consigliere pronto a sostenerlo
nei momenti più difficili.
A
penalizzare la buona prestazione dell’ex concorrente del Grande Fratello, una sceneggiatura spesso melensa, appesantita da
frasi fatte e retoriche che il prof rivolge a Leo in più di un’occasione nel
tentativo di spronarlo a crescere e ad affrontare la morte di Beatrice nel
miglior modo possibile.
Discostandosi
leggermente dal romanzo nella seconda parte, il film inciampa inevitabilmente
in una sorta di lieto fine in cui, nonostante tutto, “vissero felici e contenti”,
ma questa non è una responsabilità da attribuire a Campiotti, quanto piuttosto
all’autore stesso che anche nel libro, non riesce a risparmiarsi dal regalare
al lettore un finale prevedibile e piuttosto scontato.
Un buon
film, con pregi e difetti del genere, godibile seppur non trascendentale,
inferiore alla maggior parte dei film italiani degni di questo nome, ma senza
dubbio superiore alle stucchevoli storielle sui teenager cui Moccia, negli
anni, ci ha purtroppo abituati.
2 commenti:
Sai cosa?
Prova a guardarlo :)
Del libro se ne parla molto bene, peccato per il trailer con la canzone dei Modà :(
Esatto! La colonna sonora rovina tutto :)
Posta un commento