CONTIENE SPOILER
E anche per
quest’anno, siamo giunti alla fine di The Walking Dead.
La stagione
più discussa, più criticata, meno amata dalla maggior parte dei fan, accaniti e
non, della serie. Una precisazione a questo punto è d’obbligo però: a essere
sottoposta alle critiche, dai tanti detrattori (compresa la sottoscritta), è
sostanzialmente la seconda metà della stagione.
Sulla prima
parte, nonostante gli alti e i bassi, nulla da dire: sviluppata bene,
approfondita quanto basta negli episodi dedicati al Governatore, notevole nella
midseason finale, Too Far Gone, con l’assalto al carcere e la morte di Hershel.
La discesa,
a mio avviso evidente, è iniziata con After, l’episodio trasmesso dopo il break
durato oltre due mesi. Ciò che mi sento di recriminare allo show, non è la
lentezza che tutti lamentano, tutt’altro. Quello è proprio uno degli aspetti
che della serie ho sempre amato.
L’impressione
generale è che, a furia di lavorare sull’introspezione dei personaggi, si sia
perso un po’ il filo del discorso
La mancanza
evidente di un leader, non me ne vogliano i fan di Rick, ma è così, si è fatta
sentire.
Da un Daryl
troppo in ombra in alcuni passaggi, a una Michonne rammollita e poco credibile
nei panni di mamma chioccia per il piccolo e insopportabile Carl, fino ad arrivare
alla dipartita di Hershel, e venuto a mancare il fulcro del gruppo cui eravamo
(forse) fin troppo abituati. Perché se per alcuni episodi, hanno voluto farci
credere che “ognuno combatte per sé”, il tempo ha completamente ribaltato
questo concetto, dimostrando che, con l’acqua alla gola, nessuno riesce a stare
solo, nessuno può sopravvivere da solo.
Dopo un
susseguirsi di episodi pressoché privi di contenuto, scanditi solo da una
sceneggiatura esile e poco convincente, la sferzata verso la season finale,
l’ha data la terzultima puntata della stagione, The Grove: un episodio intenso,
coraggioso, forse uno dei migliori dell’intera serie. La scelta di far morire
Lizzie, una bambina sostanzialmente innocente, nonostante gli evidenti disturbi
psicologici, ha dimostrato che il coraggio, agli autori non manca di certo.
Negli ultimi anni, una scelta così audace, l’avevamo vista soltanto in Breaking
Bad e ci aveva lasciato senza parole. In The Grove, l’effetto
è stato simile: il finale della puntata, interpretata divinamente da Melissa
McBride, è stato lacerante.
La season finale, come nelle migliori tradizioni delle serie tv, è stata un crescendo di pathos e attesa, e ci ha lasciato con un cliffhanger piuttosto interessante.
La season finale, come nelle migliori tradizioni delle serie tv, è stata un crescendo di pathos e attesa, e ci ha lasciato con un cliffhanger piuttosto interessante.
L’assenza
di Rick, che fino a quel momento non si era sentita affatto, è servita a farci
apprezzare un po’ di più il suo personaggio che, ancora una volta, sotto
pressione, dà il massimo. Una serie di flashback ambientata mesi addietro nella
prigione, è servita ad approfondire lo spaccato psicologico sui nostri
protagonisti. È nuovamente Hershel a indicarci la via, un po’ come succedeva in
Lost con John Locke. Esiste un momento in cui è necessario, per vivere in
tranquillità, trovare una sorta di calma interiore, mettendo a tacere i nostri
istinti e la nostra aggressività, nel tentativo di ammaestrarli e riuscire a
conviverci. Parallelamente però, c’è anche il momento in cui reagire è
d’obbligo, trasformarci in ciò che credevamo di non poter mai diventare, è
fondamentale per sopravvivere. Per difendere le persone che amiamo, per restare
a galla e per non annegare. E questo Rick, è in grado di dimostrarlo più di
tutti, è innegabile. E se Daryl, personaggio da me amatissimo, oggi è diventato
l’uomo che è, pronto a difendere il suo “branco”, a sacrificarsi per il gruppo,
il merito è tutto colui che lo ha trasformato in un fratello: Rick.
Il viaggio,
estenuante e faticoso dei protagonisti sui binari del treno per giungere a
Terminus, ricorda per certi versi quello dei personaggi di Lost. Divisi in
gruppi diversi, pronti a conoscere “gli Altri” seppur inconsapevoli di cosa gli
riserverà il futuro, è solo l’ennesima somiglianza con la serie di J.J. Abrams.
Guardando a
fondo, è facile notare alcune evidenti analogie tra le due serie, a volte
leggere, altre volte piuttosto evidenti. Il viaggio introspettivo di ogni
singolo protagonista, la paura per ciò che è “diverso” ma che inevitabilmente
attrae, la fame di speranza, di redenzione, di salvezza. Il rapporto tra Daryl
e Beth ricorda inevitabilmente quello tra Shannon e Sayd; la forza di Maggie,
instancabile, autoritaria, coraggiosa, assomiglia sempre più a quella di Kate,
e gli alti e bassi di Rick come leader indiscusso del gruppo, fanno pensare,
con nostalgia, a Jack.
Il
cliffhanger finale della quarta stagione lascia presagire una ripresa
esplosiva, l’arrivo di nuovi personaggi ancora poco sviluppati, è un incentivo
in più per proseguire con una serie che sì, una piccola battuta d’arresto l’ha
subita, ma che nonostante tutto continua a collezionare ascolti incredibili per
uno show trasmesso su una cable tv come la AMC.
3 commenti:
Complimenti, ottima recensione. La condivido in pieno!
Complimenti, ottima recensione. La condivido in pieno!
Grazie mille Antonella! :)
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