There's no point to any of this. It's all just a... a random lottery of meaningless tragedy and a series of near escapes. So I take pleasure in the details. You know... a Quarter-Pounder with cheese, those are good, the sky about ten minutes before it starts to rain, the moment where your laughter become a cackle... and I, I sit back and I smoke my Camel Straights and I ride my own melt.

giovedì 29 novembre 2012

The Vampire Diaries: Elena figura centrale della stagione



The Vampire Diaries torna stasera alle 21.15, in esclusiva su Mya, con la quarta stagione inedita in Italia: punto focale dei primi episodi, la transizione di Elena.

Nel primo episodio della quarta stagione di The Vampire Diaries, Growing Pains, la storyline riparte esattamente da dove l'avevamo lasciata cinque mesi prima nella puntata Il defunto: Elena (Nina Dobrev) è in piena transizione e sta per diventare una succhiasangue.
Tutto, da questo momento in poi, e come sempre verrebbe da dire, ruota attorno a lei: Stefan (Paul Wesley) e Damon (Ian Somerhalder), il fratello Jeremy (Steven R. McQueen) e l'intera cerchia di amici, da Bonnie (Katerina Graham) a Matt (Zach Roerig), si ritrova, gira e rigira, impegnata a cercare di salvarle la vita.
Non tutto va però come ci saremmo aspettati, e la trasformazione della giovane Gilbert mostra da subito risvolti inattesi: la sua sete di sangue infatti, assomiglia molto più a quella di Damon che non a quella di Stefan, e il feeling instaurato col maggiore dei fratelli Salvatore inizia a vacillare improvvisamente.
Se già in Memorial, il secondo episodio, Elena e Damon cominciano ad avvicinarsi, in quelli successivi, da The Rager a The Five, i due sembrano sempre via via più uniti, e lo stesso Stefan, nell'ultima puntata trasmessa negli States, We All Go a Little Mad Sometimes, è costretto, suo malgrado, a rendersene amaramente conto.

 Immancabili anche quest'anno i personaggi di contorno: dalla "vampire barbie" Caroline (Candice Accola) all'ibrido Tyler (Michael Trevino), finalmente libero da Klaus (Joseph Morgan), resuscitato in fretta e furia a inizio stagione, e non più soggiogato e vittima delle sue angherie.
Fondamentale il ruolo di Jeremy, vista la piega misteriosa intrapresa dalla storia: i cacciatori di vampiri sono arrivati a Mystic Falls, e sembra proprio che il piccolo Gilbert appartenga, volente o nolente al loro clan.
La grande assenza del professor Alaric Saltzman (Matthew Davis, che nel 2013 vedremo in Cult) morto al termine della terza stagione, si fa sentire, non solo per noi spettatori, ma anche per Damon, che in lui aveva trovato un amico e un compagno di sventure.
A rimpiazzarlo nel cast, David Alpay nei panni di Atticus Shane, antropologo esperto di stregoneria e occulto che sembra avere ben più di un segreto da nascondere, e che da subito mostra un innato interesse per Bonnie.
Altra new entry di quest'anno, Grace Phipps nel ruolo di April Young, amica di vecchia data di Elena e Matt, figlia di un pastore emblematico e in combutta con i cacciatori di vampiri di cui sopra.

 A livello di hype, The Vampire Diaries si conferma, ancora una volta, un'ottima serie: teen drama a tutti gli effetti, il telefilm firmato da Julie Plec e Kevin Williamson, sposa perfettamente gli elementi tipici del fantasy e lo fa con la giusta dose di intrighi, colpi di scena e cliffhanger emozionanti, senza mai trascurare la sceneggiatura, stabile su un livello decisamente medio-alto, o altri elementi fondamentali per questo genere di show, come la colonna sonora.
L'unica pecca, se davvero così si può definire, della prima parte della stagione 4, è l'attenzione focalizzata fin troppo sul triangolo amoroso Elena-Stefan-Damon che, se da un lato può apparire fine a sé stesso, nel sesto episodio in realtà, sembra arrivare finalmente alla svolta: esortata da Stefan a prendere una decisione, la ragazza è sulla via giusta per scegliere con quale tra i due fratelli Salvatore fare coppia.
Ancora una volta, il personaggio interpretato da Ian Somerhalder ricopre un ruolo fondamentale: non solo sguardo magnetico e muscoli statuari (la regia si sofferma spesso sui suoi addominali, Twilight docet), il bel vampiro non fatica a far breccia nel cuore di Elena (e delle spettatrici), grazie al suo savoir faire da tenebroso arrogante ma dal cuore d'oro.
Tra una battuta sarcastica e una frecciatina ironica, Damon si conferma ancora una volta il vero protagonista di The Vampire Diaries, e qualora la scelta di Elena dovesse ricadere su di lui, a questo punto potremmo anche scommettere che possa trasformarsi in un fidanzato modello, visto i passi avanti compiuti fino a oggi.

lunedì 26 novembre 2012

Apartment 23: la nuova, irresistibile stagione



Quando lo scorso anno Apartment 23 debuttò sulla Abc con la prima (ahimè brevissima) stagione, bastò una manciata di episodi appena per definire la comedy di Nahnatchka Khan (American Dad, Malcom in the Middle) come uno stracult indiscusso.
A seconda stagione inoltrata, non posso che confermare il mio parere iniziale sullo show, che si contraddistingue nel panorama delle sitcom per l’umorismo politicamente scorretto, la sagacità e un’ironia fuori dall’ordinario. L’unico dettaglio su cui devo invece in parte ricredermi, riguarda la protagonista della serie. Mi spiego meglio: Krysten Ritter nei panni della “bitch” Chloe è a dir poco irresistibile, e come già affermato in passato, magnetica come poche altre attrici del piccolo schermo. La puntualizzazione riguarda semplicemente il suo ruolo all’interno di Apartment 23: se lo scorso anno infatti pensavo fosse lei il centro focale di tutto, dopo i primi quattro episodi della season 2, mi trovo “costretta” a sottolineare l’importanza dell’inimitabile James Van Der Beek, che grazie al ruolo (di sé stesso) interpretato nella comedy, è riuscito a mettere da parte i panni (noiosi e sfigati) del buon vecchio Dawson. Messo da parte lo sguardo stucchevole da teenager, James brilla finalmente in tutto il suo talento. È lui l’arma vincente di Apartment 23, con la sua ironia, il suo prendersi in giro con leggerezza, la sua capacità di capovolgere lo stereotipo del “divo della tv” per diventare macchietta di sé stesso e allo stesso tempo un uomo nuovo e irresistibile.

E se Apartment 23 è lo stracult della settimana, correte su Telefilm Cult per scoprire lo stracotto!

lunedì 19 novembre 2012

Parola d'ordine: emozionare



Alcune serie tv riescono a toccare le corde giuste, a emozionarci e coinvolgerci a tal punto, da far sì che i personaggi diventino parte del nostro mondo.
Altre serie tv hanno un ulteriore pregio: la capacità di spingersi oltre e raggiungere i punti più intimi e profondi dello spettatore e instaurare con esso un rapporto unico, destinato a durare nel tempo.
È il caso di Parenthood, la serie di Jason Katims in onda da quattro anni sulla Nbc e stracult di questa settimana.
Non è la prima volta che parliamo dello show che ha per protagonista la famiglia Braverman, composta da attori del calibro di Lauren Graham, Peter Krause e Monica Potter, solo per citarne alcuni.
Perché sì, i protagonisti di questo family drama, meriterebbero di essere citati uno a uno, dal più piccolo Tyree Brown, al più attempato, Craig T. Nelson, passando per i giovanissimi Mae Whitman e Miles Heizer, fino a Erika Christensen o Bonnie Bedelia.
Partendo sin dall’inizio con un potenziale da far invidia ad altre pietre miliari del drama familiare, come Brothers & Sisters o Desperate Housewives per certi versi, Parenthood in questi anni è riuscito se possibile, anche a superarsi.
Ha saputo andare aldilà del romanzo narrativo corale, dando spazio gradualmente e senza mai annoiare, alle storie dei singoli, scandagliando e approfondendo la psicologia di ciascun personaggio, senza trascurarne nessuno e focalizzando l’attenzione su particolari mai banali o trascurabili, ma ogni volta fondamentali e significativi ai fini della storyline generale.
Ed è proprio questa l’arma vincente della serie di Katims, la capacità di portare in scena il quotidiano di ogni piccolo ramo della famiglia Braverman, che episodio dopo episodio, contribuisce a creare un albero solido e robusto, rappresentato da una famiglia alla quale ognuno di noi, tutto sommato, vorrebbe appartenere.


Ci sono poi altre serie tv che, dopo molti anni, riescono sì ancora a emozionare, ma non come una volta.
Alcuni telefilm, nel corso degli anni, hanno perso il brio che avevano all’inizio, le storie hanno cominciato a farsi via via ripetitive e prevedibili, e le lacrime, quelle vere e sincere, riaffiorano sul volto dello spettatore solo di fronte a una delle innumerevoli tragedie nel plot.
È il caso per esempio di Grey’s Anatomy che ha inaugurato la
la nona (e onestamente si spera ultima) stagione con una serie di episodi dolorosi e difficili, che spesso ci hanno lasciato con un sapore amaro in bocca e fiumi di lacrime da asciugare.
Questa prima parte di stagione ha convinto meno del solito tanto il pubblico quanto la critica, e le scelte di Shonda Rhimes appaiono ormai azzardate e in alcuni passaggi troppo forzate.
Troppo dolore, troppa sofferenza, così troppa da trasformarsi, paradossalmente, in banalità.
Ciascun personaggio ha una cicatrice più o meno profonda da rimarginare, ognuno una tragedia da superare (l’ennesima), e le lacrime, sotto alcuni punti di vista, iniziano a diventare troppe. Siamo pur sempre di fronte a una serie tv, e non per forza dobbiamo ridurre tutto a un cumulo di kleenex accanto al divano. Alcune serie, dovrebbero aver la capacità di commuovere ed emozionare non soltanto per la dipartita di un personaggio, quanto piuttosto per quei piccoli dettagli riscontrabili anche nel nostro quotidiano, ed è proprio qui che la Rhimes cade, dove invece Katims, riesce a meraviglia. 

lunedì 12 novembre 2012

Scandal: la serie di Shonda Rhimes che vince ma non convince


Pollice verso questa settimana per Scandal di Shonda Rhimes, serie di cui avevamo già parlato qui sul blog alcuni mesi fa, relegandola nel girone degli stracotti dopo i primi episodi della season 1.
Nonostante i numerosi colpi di scena, i chili (troppi) di carne messa al fuoco, gli intrighi e gli scandali sempre più audaci, l’opinione non cambia, e lo show firmato dalla Rhimes resta una serie flop di prima categoria.
A dispetto della decisione della Abc, che dopo una prima stagione di 7 episodi ha rinnovato la serie per un altro anno e il 29 ottobre ha commissionato 9 nuove puntate in aggiunta alle 13 già pianificati, Scandal continua a non convincermi, nonostante i quasi sette milioni di spettatori incollati allo schermo ogni settimana.
Sarà perché la protagonista Olivia Pope, interpretata da Kerry Washington (ma anche il resto del cast, Henry Ian Cusick, compreso) non riesce proprio a guadagnarsi la mia simpatia, o perché le storie diventano via via sempre meno plausibili e ammissibili, sarà che la credibilità in Shonda, viste anche le ultime scelte adottate in Grey’s Anatomy, fa acqua ormai da tutte le parti.
La regia si conferma fin troppo sincopata, la quantità di dialoghi estremamente eccessiva, e la qualità dello script non sempre all’altezza delle aspettative.
Gusti personali a parte, chi volesse comunque dare un’occhiata e perché no, una chance a Scandal, serie ispirata a Judy Smith, vicecapo ufficio stampa dell’ex presidente Bush, nonché portavoce di Monica Lewinsky nello scandalo con Bill Clinton, può farlo su Fox Life, a partire dal 13 novembre alle 21.55.

Per scoprire la serie TOP della settimana, cliccate qui

martedì 6 novembre 2012

The Walking Dead: Killer Within


ATTENZIONE CONTIENE SPOILER SULLA TERZA STAGIONE DI TWD (EPISODIO 4)

Forse in questi anni abbiamo cercato il barlume di Lost nei “posti” sbagliati.
Forse non dovevamo guardare a serie come Flash Forward, Alcatraz, Terra Nova.
Forse la risposta era proprio lì, sotto il nostro naso, e noi semplicemente non ce ne eravamo accorti.
Le lunghe e  spasmodiche attese per ogni nuovo episodio di The Walking Dead potevano essere un chiaro segnale di tutto ciò. 
Così come i brividi nei momenti clou e il battito del cuore accelerato a ogni cliffhanger.
Ma tutto sommato, forse dovevamo semplicemente arrivare all’episodio Killer Within (s03eo4) per capirlo pienamente. 

Rispondete a questa domanda: odio o amore per Lori a parte, chi ieri sera non è rimasto a bocca aperta?
A chi, anche solo per pochi secondi, non sono venuti gli occhi lucidi?
E soprattutto, chi si sarebbe mai aspettato un epilogo del genere?
E lo stesso identico discorso può essere fatto per T-Dog, un personaggio mediocre, in ombra per la maggior parte del tempo, sbeffeggiato da molti perché pressoché inutile, del quale in fondo però, sentiremo la mancanza, perché la serie di Frank Darabont su questo è esattamente come quella di J.J. Abrams: siamo tutti al fianco dei protagonisti, stavolta non siamo su un’isola, ma la sostanza non cambia, noi spettatori siamo lì con Rick, a combattere e sopravvivere faticosamente, giorno dopo giorno.
La mia reazione di ieri sera, di fronte alla tragica e cruda morte di Lori (nonostante io non sia mai stata una sua estimatrice), è stata molto simile a quella suscitata anni fa dalla morte di Charlie o di Jin, solo per citare due momenti incredibili dello show del quale ancor oggi molti di oggi sentono la mancanza.
Lacrime a fiumi, bocca spalancata, occhi sbarrati.
Cosa volete di più da una serie, signori miei?
Cosa può darci di più un “telefilm”, prodoto a volte così tristemente snobbato da alcuni (e per fortuna amato da altri)?
La puntata andata in onda ieri segna un clamoroso spartiacque tra The Walking Dead e tutti gli pseudo “nuovi Lost” sperimentati fino a oggi: questa serie è un passo avanti alle altre, è un gradino, anzi forse un paio di gradini, sopra le altre.

E se già alcuni mesi fa mi ero azzardata a paragonare la frase “This is Not a Democracy Anymore” a “Not Penny’s Boat”, oggi più che mai, mi sento di affermare che io, personalmente, il mio “nuovo” Lost l’ho trovato in The Walking Dead, e no, non ho più bisogno di cercare ancora.


lunedì 5 novembre 2012

Killer Joe: molto pulp, anche troppo.



Killer Joe di William Friedkin è una pellicola da maneggiare con cura, con estrema cautela e no, non è adatto a tutti, me in primis probabilmente.
Tratto dall'omonima pièce di Tracy Letts, vincitore del premio Pulitzer, il film ha riscosso un ottimo successo al Festival del Cinema di Venezia, pur non aggiudicandosi alcun premio.
Bisogna ammettere che, la forte emarginazione nella distribuzione che ha subito in Italia è però parecchio ingiustificabile, ed è il chiaro sintomo della chiusura mentale del nostro Paese.
Premetto: a me il film non è piaciuto, lo trovo estremamente sopravvalutato e incredibilmente banale, ma non per questo trovo giusto che sia stato distribuito in una manciata di sale cinematografiche oltretutto per pochi giorni, passando per lo più inosservato per il grande pubblico.
Prima di gridare al capolavoro, io ci penserei senza dubbio due volte, ma visti i pessimi prodotti che spopolano al cinema, una chance in più Killer Joe l’avrebbe meritata, e che non si venga poi a biasimare chi approfitta dello streaming anziché andare al cinema.
L’opera di Friedkin, a mio avviso, è l’ennesima riprova che una famiglia disagiata, devastata dalle difficoltà economiche riconducibili per lo più alla dipendenza dal gioco e dall’alcol serve a poco: non bastano i nudi integrali per suscitare scalpore, né la violenza portata all’esasperazione.
Il killer efferato e psicopatico che prende “in ostaggio” una famiglia e la distrugge lentamente, seppur interpretato in maniera a dir poco magistrale da un incredibile Matthew McConaughey, è roba già vista al giorno d’oggi.
La seconda parte del film, caratterizzata da un ritmo narrativo inarrestabile e vorticoso e da un finale senza dubbio interessante, seppur per nulla originale, non basta a cancellare i primi quaranta minuti a mio avviso buttati lì senza troppa attenzione, con l’intenzione di spianare la strada a un epilogo sconcertante come quello portato in scena.
Un po’ Tarantino, un po’ Arancia Meccanica, qualcuno lo ha addirittura paragonato ai Coen, Killer Joe arriva solo con qualche anno di ritardo: probabilmente 15 anni fa ne avrei apprezzato l’impeto dirompente della violenza rappresentata senza troppi fronzoli, o la claustrofobica aggressività rinchiusa nelle quattro mura di una casa che sembra più un manicomio.
E non voglio passare da bigotta, perché il problema non è la violenza, il sangue o il sesso spiattellato in primo piano, ma un film così, “disturbante” e feroce, poteva funzionare anni fa, non oggi, su questo non cambierò idea, mai.
Oggi a parer mio sa solo di visto e rivisto, e la sceneggiatura non gioca certo in suo favore, peccando di banalità.
Con una simile pièce tra le mani, il rischio che esca fuori una porcata colossale è molto alto, Friedkin, dall'alto della sua esperienza, riesce invece a cavarci un buon film.
Quando la potenza narrativa c’è, difficilmente un regista del calibro di Friedkin può fallire, soprattutto con un attore come McConaughey che il talento ce l’ha e qui lo ha dimostrato, nonostante i soventi ruoli nelle romantic comedy, non gli abbiano reso giustizia: è riuscito a dar vita a un personaggio folle e depravato, credibile, convincente, spalleggiato da una favolosa Gina Gershon che non ha bisogno di presentazioni.
I virtuosismi registici da soli non bastano, e Killer Joe ha poco altro su cui puntare: è l’eco sbiadito di un filone che alla lunga, stanca.