La ragazza che era scesa dal tram se ne andava a spasso spedito dalla mia vita. Non l’avevo mai vista prima ma fu un piccolo lutto quando se ne andò… un momento: prima di arrivare a questo punto conviene fare un passo indietro, anche perché mai avrei pensato di prendere un tram.
I taxi erano diventati ormai il mio mezzo di trasporto prediletto e da casa all’ufficio la distanza era talmente breve, che salvo le rare occasioni in cui la pioggia battente aggrediva senza remore la città, pochi isolati mi dividevano dallo studio.
St Paul non era mai stato il mio quartiere preferito a Londra, ma dopo 3 anni, avevo imparato ad amarlo: il Tamigi mi divideva dalla Tate Modern o dal London Bridge e le mille luci del London Eye, e vicino avevo l’East End e Whitechapel. Il problema si poneva quando dovevo “sforare”, per una serata a Soho o giù fino ai Landbrooke Grove e Notthing Hill, e a quel punto entravano in scena il taxi e il rimborso spese. Lavoravo negli uffici futuristici costruiti da Norman Foster, e se i miei capi potevano permettersi di pagare l’affitto, avrebbero potuto badare anche al mio conto spese, considerando il cospicuo stipendio col quale da 2 anni a questa parte potevo permettermi lussi e vizi di ogni tipo.
Quella sera il cielo non prometteva pioggia, e avevo davanti a me una cena di lavoro in un lussuoso ristorante nel cuore di Soho. Armata di cambio d’abito per non ripassare da casa e dilungarmi troppo sotto la doccia (per evitare che l’acqua calda mi sciogliesse i muscoli, gettandomi in uno stato catatonico dal quale difficilmente sarei uscita) ero pronta per il gran finale: avevamo ultimato un importante progetto dopo mesi e mesi di duro lavoro, e di lì a poche ore a cena avremmo presentato i disegni al magnate assegnatario dell’incarico. Dopo numerose notti insonni ecco finalmente la fine di un lungo progetto, impegnativo e travagliato come un parto.
Alle 18:00 uscii dall’ufficio per un drink in pieno relax prima di affrontare la cena, ma qualcosa nel caos generale dell’andirivieni intorno a me, catturò subito la mia attenzione: una ragazza italiana con macchina fotografica al collo e cartina alla mano saltellava allegramente mentre al telefono ripeteva alla madre quanto fosse bella la città. Restai a guardarla ammirandone l’euforia dilagante. Riattaccò e telefonò a qualcun altro, forse un amico, dilungandosi a raccontare le attrazioni ammirate il giorno prima, e la sua voglia di vivere la città in lungo e in largo.
Saltò su un tram in direzione Oxford Street, e la tentazione mi spinse a imitarla e a salire sul mezzo arancione.
Scelsi un posto un paio di file avanti a lei e ricomincia a fissarla: qualcosa mi attirava con una forza magnetica, e non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso.
La guardai sottolineare con cura sulla cartina i luoghi che avrebbe voluto visitare e fotografare quando a un tratto alzò gli occhi incrociando il mio sguardo e con un sorriso raggiante mi rivolse la frase che riassumeva la sua immensa gioia di essere lì, sul quel tram, in quel preciso momento: “London is really beautiful!!! Best city! You lucky to live here!”. Risposi educatamente con sorriso voltandomi altrove.
A quel punto capii esattamente cosa mi spingeva a guardarla, cosa mi stregava e non mi permetteva di toglierle gli occhi di dosso: in lei rivedevo me 10 anni prima, quando durante il viaggio dopo la maturità, trascorsi due settimane nella città che di lì a breve avrebbe cambiato il corso della mia vita.
La città di cui mi sarei innamorata e il cui amore mi avrebbe costretto, dopo la laurea, ad abbandonare tutto ciò che avevo per sfidare la fortuna e iniziare una vita dalla quale difficilmente sarei riuscita a tornare indietro.
A 18 anni ero esuberante, speranzosa ed eccitata al pensiero della vita che avrei avuto davanti, convinta che lì sarei finalmente stata felice, e all’inizio fu davvero così.
Mi ritrovai così, d’improvviso, protagonista involontaria di un viaggio nel passato, a rimpiangere com’ero, come avrei voluto diventare prima che la mia sete di successo mi trasformasse e cambiasse radicalmente, rendendo il cambiamento evidente ovunque.
Sin dal mio appartamento, un loft di nuova costruzione arredato con le ultime novità in materia di design, fino ad arrivare al mio guardaroba ricco di abiti chic e ricercati tra il vintage e la griffe famosa.
L’opposto totale del mio periodo londinese da stagista, in cui dimagrii 12 chili a causa dello stress e del poco tempo a disposizione per i pasti, e condividevo un monolocale in Liverpool Street con Leny, una studentessa coreana; quando mi alzavo la domenica mattina presto alla stregua di qualche bella occasione da strappar via tra le bancarelle di Portobello, e l’unico Sushi che potevo permettermi era quello a buon prezzo della catena Pret-a-Manger. Il periodo in cui socializzavo con chiunque si presentasse sul mio cammino, senza distinzione di razza o religione, quando l’essenza multi-etnica di Londra mi affascinava incredibilmente.
Poco prima che il lavoro e il denaro mi risucchiassero e trasformassero nella persona algida e distaccata che ero ora, fomentata dall’inestinguibile sete di successo che si era impossessata di me; prima di finire a letto col mio capo, sposato e con 2 figli, per ottenere una promozione, e prima ancora di diventare scaltra e furba come le persone che in passato avevo accusato di arrivismo e spregiudicatezza.
La città mi aveva assorbito e alienato, e glielo avevo lasciato fare senza oppormi.
Mi stavo lentamente dimenticando cosa avevo amato di quella metropoli e cosa mi aveva spinto ad abbandonare i miei affetti per viverci, quando i bagels al salmone dell’East End erano per me la cosa più appetitosa del mondo e ignoravo l’esistenza della cucina fusion di cui mi cibavo negli ultimi tempi.
Ero cambiata in maniera vorticosa e irreversibile ed era la prima volta che mi fermavo a rifletterci su, con lucidità e consapevolezza. Di qualcosa comunque, andavo fiera: al lavoro ero brava e i colleghi mi adoravano, riuscivo a essere sempre adeguata e affascinante in ogni situazione e l’ambiente cool ed esclusivo di cui ormai facevo parte mi calzava a pennello.
Ma restava una parte di me che si sentiva in colpa per aver sacrificato lati del mio carattere che consideravo capisaldi nella mia vita, e per aver relegato famiglia e amici in Italia, a semplici diversivi durante le vacanze di Natale e altre visite obbligate.
Eccomi qui: su un tram umido e mal ridotto, a poche ore da un importante meeting di lavoro, a riflettere sulla mia vita e a rendermi conto inevitabilmente di quanto sia diventata arida e snob.
La ragazza italiana si avviò verso l’uscita mentre le luci di Oxford Circus invadevano prepotentemente lo spazio intorno a noi; mi salutò con un cenno del capo e spalancò gli occhi alla vista del panorama che aveva davanti.
La seguii con lo sguardo, mentre una lacrima sconosciuta e silenziosa iniziò a rigarmi il viso.
Avrei dovuto alzarmi per tornare indietro, ma gambe e braccia divennero pesanti come il piombo e sprofondai sul sedile, inerme, mentre altre persone salivano per la prossima corsa.
La cercai fuori tra la folla che gremiva il marciapiede nell’ora di punta: eccola lì, la ragazza che era scesa dal tram se ne andava a spasso spedito dalla mia vita. Non l’avevo mai vista prima ma fu un piccolo lutto quando se ne andò, perché mi lasciò con una nuova consapevolezza di me stessa, che difficilmente avrei potuto ignorare da quel momento in poi: l’indomani avrei dovuto fare i conti con ciò che mi era scoppiato dentro.
Ora dovevo tornare in me e ritrovare la lucidità per affrontare la serata che mi si prospettava davanti: cercai di rilassarmi e sfruttare i pochi minuti di perfetta solitudine che mi restavano per riacquistare l’autostima, mettendo in atto le tecniche di rilassamento apprese alle lezioni di yoga. Inspirare, espirare; inspirare, espirare…
Fuori la pioggia iniziò a cadere, come se volesse lavarmi via di dosso l’ondata di emozioni contrastanti che mi aveva appena investito.
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