Questa è la storia della nostra amicizia, del nostro incredibile legame, di come questo ci abbia aiutato a crescere, a diventare adulte, ad essere quelle che siamo. Qualsiasi evento importante della mia vita lo ricordo legato a lei, in maniera indissolubile.
Ogni decisione importante, ogni evento significativo, ogni traguardo raggiunto.
Unite, inseparabili, indivisibili.
Il nostro era un rapporto speciale, un’amicizia davvero unica. Nessuno poteva realmente capire il forte legame che ci univa. Nessuno all’infuori noi due, che insieme condividemmo l’inverosimile, in un succedersi di esperienze assurde, esilaranti, emotivamente intense. Chi non era con noi non potrà mai comprendere ciò che ci legava. Eravamo in due, ma in realtà una. Il mio carattere rafforzava il suo, le sue insicurezze mi appartenevano. Insieme siamo cresciute, cambiate. Insieme abbiamo sbagliato e corretto i nostri errori. Sempre unite, complementari. Spesso involontariamente chiuse ad altre amicizie, seppur senza farlo di proposito, chiunque ci si avvicinasse, in poco tempo capiva che non avrebbe potuto competere col nostro legame, non avrebbe potuto sostituire l’una con l’altra: ne prendevi una, dovevi sopportarle entrambe insomma.
Al liceo, ma soprattutto all’università, le amicizie nuove erano come un nuovo ragazzo: dovevano superare una sorta di esame. Un’amicizia profonda quindi, ma difficile da comprendere. Alla maggior parte della gente sembravamo ossessive, per certi versi infantili, per altri semplicemente strane.
Noi stavamo bene in quel modo, nel nostro piccolo mondo, derise da alcuni di sottecchi, e il più delle volte invidiate… “non ti curar di loro ma guarda e passa”, ce lo ripetevamo di continuo. Stavamo bene insieme, riuscivamo a ridere per le piccole cose, ad estrapolare il lato positivo in ogni situazione; ci divertivamo e allo stesso tempo ci tenevamo strette la mano per non cadere, il resto non contava nulla.
Una birra di troppo e le risate erano assicurate. A piedi, in tram, su un taxi, la serate in cui durante gli anni dell’università tornavamo a casa ubriache, resteranno per sempre storiche. Cantavamo per strada a squarciagola, incuranti del resto del mondo. Scavalcavamo la metro in pieno centro senza biglietto per prendere l’ultimo treno che ci portasse a casa. Finimmo in commissariato un paio di volte per l’eccessiva libertà con la quale ci concedevamo uno spinello all’aria aperta. Chi tentava di sbarrarci la strada con un ragazzo che ci interessava poi, era spacciato. In quei casi bastava fare una cosa sola: unire le nostre forze e combattere, sempre unite, sempre insieme.
Gli anni del liceo ci forgiarono come non mai: le liti con mamma e papà perché rientravamo tardi, il coprifuoco, l’odore delle sigarette da nascondere, il primo amore…
Ne combinavamo di tutti i colori… Dopo la terza multa per aver girato in due in motorino senza casco, restammo relegate nel quartiere, e le scorazzate sul Lungotevere giunsero al capolinea. Camminare a piedi per la capitale ci sfinì a tal punto da farci restare nella tanto detestata periferia a fare castelli in aria sul nostro futuro, durante le sere d’estate in cui l’unico autobus in circolazione ci permetteva, miracolosamente, di raggiungere il Gianicolo alle undici di sera.
L’estate della maturità segnò il primo viaggio insieme, quello che più tardi definimmo spesso “il viaggio di formazione, a Londra, sotto il controllo attento ma poco severo di mio fratello e della sua fidanzata.
Indimenticabile. Alloggiavamo in una pensione a Portobello Road, sopra un pub tipicamente inglese che ci permise di assaggiare più e più volte la nostra prima doppio malto. Mio fratello fu alquanto clemente e ci lasciò piena libertà, a riprova dell’immensa fiducia che da sempre riponeva in me. Avevamo degli orari precisi da rispettare per mantenere il giusto ordine e la sera non potevamo restar fuori oltre le undici. Ma le regole, il coprifuoco e la promessa di non farci derubare e di non perderci, non ci impedirono di vivere la vacanza più importante della nostra vita. La vacanza che ci formò, quella che decise il nostro futuro.
Di Londra ci innamorammo subito entrambe e lasciammo lì il nostro cuore. In quei giorni “marciammo” sotto la pioggia o l’afa insopportabile per quasi dodici ore al giorno, decise a percorrere la città in lungo e in largo, per assaporarne ogni dettaglio, senza lasciarci sfuggire nulla. La attraversammo in lungo e in largo, senza tralasciare nulla.
L’ultima sera cenammo a Chinatown dopo esserci scolate un paio di birre in un locale del centro. Mentre cercavamo di arrotolale dei noodles un po’ troppi unti in un fast food cinese in Leicester Square, canticchiando “Don’t Cry” dei Guns’n Roses che passava alla radio, tra una birra e una sigaretta, mi venne l’illuminazione: “Kia, ma che dici se, finiamo l’università e ci trasferiamo qui? Se ce l’hanno fatta in tanti, per noi sarà una passeggiata. A costo di lavare i piatti per un anno in un ristorante tailandese…”. Lei non esitò: “Ti seguo anche se mi tocca fare l’elemosina a Covent Garden, lo sai”. “Giura?”. “Giuro”. “È andata, lo faremo. Conquisteremo questa città! Cheers!”. “Cheers”.
E così fu. Non rimase una frase detta in una sera di mezza estate da due ragazzine ubriache e troppo euforiche. Non restarono parole al vento. Mantenemmo il patto, rispettammo la promessa. Eravamo due di parola noi. Quasi sempre.
Anche se quella sera, nell’aria umida e rarefatta di Chinatown, non capimmo subito di aver siglato il patto che avrebbe cambiato la nostra vita. Per sempre.
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