Buio. Silenzio. Oscurità.
si sentono dei passi, si avvertono dei movimenti, qualcuno sul palcoscenico si accende una sigaretta, lo si evince dal rumore di un accendino che non vuole funzionare.
Cos’è la paura. Di questo inizia a parlare Thom Pain (Elio Germano)immerso nell’oscurità totale.
Prova a darle una definizione, vaga, confusa, poco chiara.
Luce. Occhio di bue fisso a illuminare quella porzione di palco dove a far compagnia al personaggio ci sono solo una sedia, una bottiglia d’acqua e un vocabolario.
Che il monologo (scritto da Will Eno) abbia inizio.
Thom si muove nervosamente nel perimetro che gli è stato assegnato, una fetta di spazio che sembra non bastargli. Non è sufficiente per i sui spostamenti nevrotici, per i suoi tic, la sua esuberanza apparente.
Inizia il suo sproloquio, parla agitandosi di qua e di là, fermandosi a riflettere, lasciando che i pensieri scorrano veloci ad alta voci, sgorgando dal fiume in piena custodito nella sua mente.
Thom descrive un bambino vestito da Tex Willer che gioca in una pozzanghera.
Thom accenna a sua madre e a suo padre.
Si ferma, torna suoi passi, e ci fa la prima domanda “qual è stato il preciso momento in cui è finita la vostra infanzia? Quando avete visto qualcosa di spiacevole e avete provato dolore?”. CI fa riflettere Thom. Ci fa ridere, irritare quando finge di perdere il filo del discorso per proporci un gioco di prestigio che poi ci nega, e spara un’altra frase che ci trafigge il cuore: ”se questo fosse l’ultimo giorno della tua vita, come lo vivresti? Cercheresti di essere più felice?” ci esorta a non perdere tempo, lo fa con ardore, ci convince quasi, senza cadere nella banalità. Thom parla di dolore, tempo, amore, solitudine, morte. Si ferma, fa una battuta, urla “boh!” ad alta voce, sdrammatizza con una battuta, riparte con il suo racconto. Si distrae, ci distrae. Ride, sfiora le lacrime quando parla del suo perduto amor. Ci racconta quanto il tempo sia stato tiranno con lui, quanto l’amore che nutriva nei confronti di quella bellissima donna, non sia stato abbastanza.
“Prima ero il nulla.
Poi mi sono innamorato.
E sono sparito.
Dentro di lei”. Assume sempre più un atteggiamento chapliniano, Thom, cercando di instaurare un labile rapporto col pubblico, esortandolo a rispondere ai sui dubbi, a commentare le sue osservazioni.
Nonostante il titolo provocatorio dell’opera, Thom Pain – Basato sul niente, di quel niente non c’è traccia, e anche se le due domande sembrano slegate, prive di uno scopo o gettate lì senza un perché.
Il senso c’è, eccome se c’è. Le paure di Thom, sono le nostre paure, radicate nel profondo.
I suoi desideri, i nostri.
Le sue esperienze, in un modo o nell’altro, le abbiamo vissute, e anzi, forse non ce lo ricordiamo neanche.
Condividiamo con lui dubbi e speranze, sacrosante verità, ma come lui, non possiamo però dargli una risposta. Perché neanche Dio, o chi per lui, potrebbe farlo. “Ci aggiustiamo il nostro dolore addosso” Tentiamo di nascondere con l’ironia le nostre fragilità, e nella maggior parte dei casi, proprio come Thom, otteniamo l’effetto opposto, mostrandoci in tutto e per tutto nella nostra vulnerabilità.
Il monologo di Pain prosegue, per terminare dopo un’ora, tenendoci incollati per tutti quei minuti sul suo volto confuso, triste, solo apparentemente comico, in una perfetta sintesi tra attore e personaggio.
Senza scadere nell’ovvietà, senza lasciarsi andare al dramma, lo spettacolo si conclude con un flebile inno alla vita, anch’esso infarcito, come tutte le riflessioni del protagonista del resto, da un ottimismo fittizio.
si sentono dei passi, si avvertono dei movimenti, qualcuno sul palcoscenico si accende una sigaretta, lo si evince dal rumore di un accendino che non vuole funzionare.
Cos’è la paura. Di questo inizia a parlare Thom Pain (Elio Germano)immerso nell’oscurità totale.
Prova a darle una definizione, vaga, confusa, poco chiara.
Luce. Occhio di bue fisso a illuminare quella porzione di palco dove a far compagnia al personaggio ci sono solo una sedia, una bottiglia d’acqua e un vocabolario.
Che il monologo (scritto da Will Eno) abbia inizio.
Thom si muove nervosamente nel perimetro che gli è stato assegnato, una fetta di spazio che sembra non bastargli. Non è sufficiente per i sui spostamenti nevrotici, per i suoi tic, la sua esuberanza apparente.
Inizia il suo sproloquio, parla agitandosi di qua e di là, fermandosi a riflettere, lasciando che i pensieri scorrano veloci ad alta voci, sgorgando dal fiume in piena custodito nella sua mente.
Thom descrive un bambino vestito da Tex Willer che gioca in una pozzanghera.
Thom accenna a sua madre e a suo padre.
Si ferma, torna suoi passi, e ci fa la prima domanda “qual è stato il preciso momento in cui è finita la vostra infanzia? Quando avete visto qualcosa di spiacevole e avete provato dolore?”. CI fa riflettere Thom. Ci fa ridere, irritare quando finge di perdere il filo del discorso per proporci un gioco di prestigio che poi ci nega, e spara un’altra frase che ci trafigge il cuore: ”se questo fosse l’ultimo giorno della tua vita, come lo vivresti? Cercheresti di essere più felice?” ci esorta a non perdere tempo, lo fa con ardore, ci convince quasi, senza cadere nella banalità. Thom parla di dolore, tempo, amore, solitudine, morte. Si ferma, fa una battuta, urla “boh!” ad alta voce, sdrammatizza con una battuta, riparte con il suo racconto. Si distrae, ci distrae. Ride, sfiora le lacrime quando parla del suo perduto amor. Ci racconta quanto il tempo sia stato tiranno con lui, quanto l’amore che nutriva nei confronti di quella bellissima donna, non sia stato abbastanza.
“Prima ero il nulla.
Poi mi sono innamorato.
E sono sparito.
Dentro di lei”. Assume sempre più un atteggiamento chapliniano, Thom, cercando di instaurare un labile rapporto col pubblico, esortandolo a rispondere ai sui dubbi, a commentare le sue osservazioni.
Nonostante il titolo provocatorio dell’opera, Thom Pain – Basato sul niente, di quel niente non c’è traccia, e anche se le due domande sembrano slegate, prive di uno scopo o gettate lì senza un perché.
Il senso c’è, eccome se c’è. Le paure di Thom, sono le nostre paure, radicate nel profondo.
I suoi desideri, i nostri.
Le sue esperienze, in un modo o nell’altro, le abbiamo vissute, e anzi, forse non ce lo ricordiamo neanche.
Condividiamo con lui dubbi e speranze, sacrosante verità, ma come lui, non possiamo però dargli una risposta. Perché neanche Dio, o chi per lui, potrebbe farlo. “Ci aggiustiamo il nostro dolore addosso” Tentiamo di nascondere con l’ironia le nostre fragilità, e nella maggior parte dei casi, proprio come Thom, otteniamo l’effetto opposto, mostrandoci in tutto e per tutto nella nostra vulnerabilità.
Il monologo di Pain prosegue, per terminare dopo un’ora, tenendoci incollati per tutti quei minuti sul suo volto confuso, triste, solo apparentemente comico, in una perfetta sintesi tra attore e personaggio.
Senza scadere nell’ovvietà, senza lasciarsi andare al dramma, lo spettacolo si conclude con un flebile inno alla vita, anch’esso infarcito, come tutte le riflessioni del protagonista del resto, da un ottimismo fittizio.
“Rimanete stabili. So che non è gran cosa, ma ce lo facciamo bastare. Non è meraviglioso, essere vivi?“
Usciamo dal teatro con la sensazione latente di aver assistito a qualcosa di più grande di noi, più intenso e significativo di quel che sembra. Thom ci ha presi in giro, ci ha ingannati con le sue battute, e ha lasciato un vuoto, magari impercettibilie ora, da colmare, e tante domande a cui dare una risposta.
2 commenti:
Una recensione eccezionale, un'accurata descrizione, una mirata interpretazione dell'opera ed una significativa descrizione di Germano.
Veramente ben fatto!
jef
Grazie!!! ^^
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