Abbandonato il cielo grigio di Londra e il sole splendente di Barcellona, Woody Allen sbarca a Parigi, la ville lumière da lui tanto amata, già teatro di Hello Pussycat e Tutti dicono I Love You.
Midnight in Paris, nelle sale italiane dallo scorso venerdì, celebra ancora una volta l’amore smisurato che il regista nutre nei confronti della capitale francese, vissuta come un meraviglioso riflesso della sua adorata New York.
Una vera e propria dichiarazione d’amore alla città, come dimostra l’ouverture iniziale (che ricorda inevitabilmente quella di Manhattan, nonostante sia priva del celebre paino sequenza) caratterizzata da una carrellata di pittoresche immagini dei luoghi più suggestivi di Parigi, immagini che le rendono perfettamente giustizia e che, a differenza delle ultime pellicole, esulano finalmente dagli stereotipi alleniani sull’Europa.
Riprendendo quel senso di nostalgia e di illusione a lui tanto caro e già descritto in maniera sublime ne La Rosa Purpurea del Cairo, Allen ci regala finalmente un buon film, dopo i deludenti insuccessi degli ultimi anni, capitanati in primis dal pessimo Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni dello scorso anno, a mio parere la sua opera peggiore.
La Parigi dei ruggenti e sfavillanti anni Venti al centro delle (dis)avventure di Gil Pender, interpretato dal bravissimo Owen Wilson, calatosi per l’occasione nei panni del nevrotico protagonista, molto simile al regista stesso e ai ruoli da lui ricoperti in passato. Sceneggiatore di Hollywood in cerca di ispirazione per il suo primo romanzo, Gil spera che la città da lui tanto amata, possa offrirgli lo spunto necessario per completare il libro, in cantiere da ormai troppi anni.
Ancorato saldamente a un passato in cui vorrebbe rivivere per respirarne l’aria fresca e rivoluzionaria che la contraddistingue, Pender viene catapultato ogni sera, allo scoccare della mezzanotte, nell’epoca d’oro della borghesia francese, tra scrittori, pittori e poeti dalla mente arguta e brillante, che Allen introduce spesso senza neanche scandirne nome e cognome, per farli e disfarli a su piacimento, dando vita a una favola surreale e all’apparenza leggera, che nasconde un significato intrinseco profondamente educativo per tutti coloro che rinnegano il presente e sono alla continua ricerca degli sfarzi del passato.
Facile rifugiarsi lì di questi tempi: fuggire dalla cupa e grigia realtà, rincorrere miti di altri tempi in cui calarsi, per non deprimersi a causa dei propri fallimenti e cercare conforto altrove, convinti utopisticamente che in un’altra epoca avremmo vissuto meglio.
Tra una gag e l’altra, passando per un paio di battute esilaranti e personaggi irresistibili, il regista ci invita a riflettere sul presente, sfatando il mito che affligge la società di oggi, che vuole il passato come l’unico posto al mondo in cui valga la pena vivere. Allen sfiora appena la banalità, la sorpassa astutamente grazie a un divertente e disincantato spaccato sulla società degli anni Venti, ci offre una panoramica sul “circolo degli artisti” di allora a cui è impossibile resistere, a partire da uno strepitoso Dalì (Adrien Brody) passando per l’eccentrica Gertrude Stein (Kathy Bates) fino ad arrivare a un emblematico Hemingway cui presta il volto Corey Stoll.
Un cast efficace e di alto livello (oltre ai già citati Wilson Brody e Bates, spiccano Marion Cotillard e Rachel McAdams) si lascia trasportare da una sceneggiatura brillante e tipicamente alleniana, che nonostante non si possa annoverare tra le migliori del regista, regala momenti divertenti e sagaci allo spettatore.
Punto di forza del film, senza ombra di dubbio, la fotografia di Darius Khondji, che va a riempire i vuoti laddove lo stile registico vacilla: attraverso luci basse e soffuse regala agli interni l’atmosfera ovattata tipica dei film di quegli anni, e dona alle riprese in esterno un bagliore sui toni del giallio che rende l’illuminazione perfetta per le macchie di colore che spaziano dal verde al dorato, tipicamente parigine.
A colpire, l’inusuale ottimismo ostentato dal regista, che ci ha abituati negli anni a una visione cinica e pessimista della vita e che qui invece ci sorprende con uno spirito nuovo, atipico, piacevole ma decisamente meno convincente.
Midnight in Paris, il sesto lungometraggio girato fuori dagli States, è indubbiamente la migliore opera di Woody Allen da Match Point a oggi, l’unica in grado di ricalcare gli stilemi tipici del regista e che tenta di rinnovare la sua visione del mondo.
Difficile credere al messaggio che l’autore vuole trasmettere, o meglio, difficile credere che lui ne sia realmente convinto, proprio lui, che per mettere a segno finalmente un film, torna agli albori e a quella rosa purpurea del 1985: lui, che cerca di scacciare la nostalgia, quando di nostalgia si è sempre voluto circondare, e di nostalgia ha vissuto.
Il film è piacevole, grazioso, per nulla pretenzioso seppur tipicamente radical-chic ma Wilson non è di certo Jeff Bridges e la Cotillard non è Mia Farrow, e soprattutto, Woody non prendiamoci in giro, chi ti conosce bene lo sa: tu, in quegli anni Venti, ci saresti rimasto eccome, altroché!
There's no point to any of this. It's all just a... a random lottery of meaningless tragedy and a series of near escapes. So I take pleasure in the details. You know... a Quarter-Pounder with cheese, those are good, the sky about ten minutes before it starts to rain, the moment where your laughter become a cackle... and I, I sit back and I smoke my Camel Straights and I ride my own melt.
lunedì 5 dicembre 2011
Midnight in Paris: inno alla ville lumière
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7 commenti:
Concordo in pieno, soprattutto sul fatto che si tratti del miglior Allen da Match point a oggi.
Allen ultimamente mi ha sempre fatto cascare le braccia... gli utlim film mi sono rifiutato di vederli, parevano fatti con lo stampino! Però di questo ne parlano tutti benissimo, mi toccherà recuperarlo... ;-)
la cotillard non è mia farrow.
è molto meglio!!! :)
Infatti, dopo alcune prove opache, torna il buon vecchio Woody Allen. E tutti siamo felici!
MIDNIGHT IN PARIS
Posso andare un pochino controcorrente? :-) Mi è piaciuto ma non mi ha entusiasmato... di sicuro il miglior Allen degli ultimi anni, ma onestamente non è che ci volesse molto!
E' un film 'carino' ma piuttosto scontato. Il finale è telefonatissimo e la coppia Wilson-McAdams quanto di più stereotipata non potrebbe essere.
Si ride e ci si diverte.
Ma si dimentica in fretta...
Ottima analisi, ottimo commento, concordo con te, dopo Match Point sicuramente la sua migliore opera:
Devi conoscere molto bene il profilo di Allen, sai descrivere molto bene le sue sensazioni ed il suo punto di vista. Brava consordo con te in tutto e Owen Wilson sa calarsi notevolente nella sua parte. Grazie Stargirl continua così
Cherie
Credo sia definitivamente arrivato il momento di iniziare a dividere la carriera del Maestro in più fasi; non si può neanche lontanamente paragonare l'Allen della Rosa Purpurea con l'Allen di Matchpoint addirittura con quello degli ultimi 5 anni. L'arte stessa ha i suoi cicli e se non si inizia a prendere in considerazione che un vecchietto di quasi 80anni può avere poco da dire ma molta da visualizzare non si può riuscire a fare un serio Topic sulle ultime opere. Diverse fra loro. Non all'altezza dell'Allen migliore ma, a mio modesto avviso, con delle immagini da cogliere e da portare con noi per il resto degli anni .
Del resto lui stesso all'inizio di questo suo quarto ciclo di vita cinematografica traccia la via proprio con MatchPoint; pregi e difetti di quel film saranno la mappa degli ultimi e di altri a venire.
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