Dimenticate Psycho, il capolavoro
di Alfred Hitchcock dell’ormai
lontano 1960. Mettetelo da parte, scordatevi Norman Bates come siete abituati e
ricordarlo e, per sicurezza, liberate la memoria anche dal remake a colori del
1998 di Gus Van Sant.
Ecco, ora siete pronti, potete gettarvi a capofitto nella nuova serie
della A&E ed entrare nel Bates Motel,
serie tv prequel del film in questione.
Perché questa premessa, vi starete chiedendo.
Semplice: perché lo show è ambientato ai
giorni nostri.
Ebbene sì, sembra folle, ma è così.
Non chiediamoci perché, proviamo a sorvolare,
o sarà impossibile sia proseguire con questa recensione, sia iniziare a seguire
Bates Motel, che, tutto sommato, sporadicamente risulta anche godibile,
nonostante ribalti da subito qualsiasi tipo di aspettativa a causa soprattutto
dei richiami continui, ma ahimè poco credibili, agli anni Cinquanta.
Lo show nasce da un’idea di Carlton Cuse, uno dei creatori di Lost
(motivo che mi ha spinto a iniziare a seguirlo) e Kerry Erhin (“papà” di Friday Night Lights) ed è
prodotto da Universal Television Group
e The Wolper Organization.
Il protagonista è Freddie Higmore, il
bambino de La fabbrica del Cioccolato, nei
panni di un giovane Norman Bates agli albori della sua “pazzia”, ancora
apparentemente lontano dallo psicopatico omicida che Mr. Hitchcock ci ha fatto
incontrare più di cinquant’anni fa ormai.
Al suo fianco, la vera star della serie, Vera Farmiga (Up in the Sky) nel ruolo di sua madre
Norma e a completare l’inquietante quadretto familiare, il bel Max
Thieriot che interpreta Dylan, il figlio maggiore, border line, alternativo, “pericoloso”.
Nel ruolo dei “buoni”, anche se nulla, in Bates
Motel è come sembra (nonostante l’eccessiva prevedibilità degli
avvenimenti) un volto noto per tutti i “lostiani” incalliti, Nestor “Richard” Carbonell, qui lo Sceriffo Romero, che
ha come braccio destro Zach Shelby, Mike Vogel (Pan Am).
Un prequel poco convincente, a tratti
surreale, al quale mancano soprattutto audacia e “cattiveria” per essere
definito un vero e proprio crime alla
Dexter o un horror/thriller
mozzafiato stile American Horror Story.
Siamo vicini al drama vero e proprio (del resto va in onda su un network che
proprio di questo genere si fa portavoce: “A&E
is real life. Drama“), a cui si cerca di dare maggiore sostanza con alcuni
sfortunati colpi di scena sparsi qua e là, qualche lampo di genio disperato che
cerca di far, se non saltare, almeno spostare di qualche millimetro lo
spettatore sulla poltrona.
Il risultato è debole, poco convincente, per
nulla originale, e forse non è neanche un problema di ambientazione, quanto più
di una sceneggiatura non solo inverosimile su parecchi passaggi, ma decisamente
fiacca e scontata.
Nonostante ciò, l’8 aprile dal entwork è
arrivato il rinnovo per una seconda stagione di dieci episodi, a ulteriore
riprova del fatto che, negli States, la qualità delle serie tv si stia
abbassando sensibilmente in questi ultimi anni, e aldilà delle sporadiche “perle”
che ogni tanto sbucano qua e là nei palinsesti, a sopravvivere spesso sono show
“stracotti” che inaspettatamente riescono a conquistare il pubblico
d’oltreoceano.