There's no point to any of this. It's all just a... a random lottery of meaningless tragedy and a series of near escapes. So I take pleasure in the details. You know... a Quarter-Pounder with cheese, those are good, the sky about ten minutes before it starts to rain, the moment where your laughter become a cackle... and I, I sit back and I smoke my Camel Straights and I ride my own melt.

mercoledì 30 novembre 2011

Home Alone: un evergreen che non passa mai di moda

“Ehi, sto mangiando schifezze e guardando un film da grandi, venite a impedirmelo!”

Chi non ricorda l’espressione furbetta e arrogante di un giovanissimo Macaulay Culkin nei panni di Kevin, nel rivolgere questa frase di sfida ai genitori e ai fratelli lontani, rei di averlo dimenticato a casa prima di partire per Parigi? La scena è tratta da Mamma ho perso l’aereo (Home Alone), storica pellicola del 1990 scritta da John Hughes e diretta da Chris Columbus, che lanciò il bimbo prodigio Culkin nel firmamento di Hollywood.
Evergreen della commedia americana per famiglie, il film vent’anni fa riscosse un successo clamoroso negli Stati Uniti così come in Europa, e a distanza di tantissimo tempo, la sensazione è quella che non passi mai di moda. Soprattutto in piena atmosfera natalizia, non c’è niente di meglio di una serata revival in compagnia di Kevin e dei suoi divertenti trucchetti escogitati per sabotare i piani dei due impacciati furfanti, interpretati da Joe Pesci e Daniel Stern, che cercano di svaligiare la sua villa approfittando dell’assenza del resto della famiglia, volata in Francia lasciando il pargolo a casa.
Grazie a uno humour spassoso e genuino, fatto di gag esilaranti e sketch ai limiti del cartoonesco a cui nessuno può resistere
, Mamma ho perso l’aereo non smetterà mai di farci sorridere, e a tratti anche ridere a crepapelle. Un film semplice e leggero sì, ma allo stesso tempo indimenticabile: un toccasana per i nostalgici, un classico che non tramonterà mai.
Il film perfetto da guardare la notte di Natale, per tornare tutti un po’ bambini.

Chi è?
Little Nero, signore, ho portato la pizza!
Lasciala davanti la porta e levati dalle scatole.
Ok, ma per i soldi?
Quali soldi?
Quelli che mi deve per la pizza, signore!
Ah sì? E quanto dovrei darti?
Sono 11 e 80.
[Dandogli 12 dollari] Tieni il resto, lurido bastardo!
Spilorcio!
Ehi, ti do il tempo di contare fino a dieci per far sparire la tua brutta faccia gialla dalla mia proprietà prima che ti riempia le budella di piombo... uno, due e dieci!

Recensione pubblicata su Cubovision!

martedì 29 novembre 2011

..there goes my hero, watch him as he goes..

Da piccola credeva che lui fosse il suo supereroe.
Quando era alta una spanna o poco più, era convinta che nella vita, nulla sarebbe mai andato storto se lui fosse rimasto al suo fianco.
Lui, che con le sue mani grandi grandi la faceva sempre sentire al sicuro.
Lui, che con le sue spalle larghe, la sollevava solo con una mano, la lanciava in aria per poi riprenderla, le faceva fare le capriole. Senza mai farla cadere.
E quante volte, anche quando cominciò a crescere, correva a nascondersi in camera sua, perché solo lì, in certi casi, riusciva a sentirsi al sicuro. Aspettava che lui tornasse a casa per gettarsi tra le sue braccia forti, e dimenticare tutti i piccoli problemi che le davano il tormento. La scuola, il primo amore, un amico che se ne va, i problemi a casa.
Da piccola, con lui, non si sentiva mai sola.
Ma poi si sa, gli anni passano, le persone crescono, e la vita va come va.
Arriva un momento, nella vita di ognuno di noi, in cui volenti o nolenti, bisogna imparare a camminare da soli. Lei lo capì presto, ma per tanto tempo, preferì fare finta di nulla, sperando di soffrire meno.
Per molti anni, s’illuse che lui l’avrebbe sempre tenuta per mano, nei momenti difficili, davanti agli ostacoli con cui la vita cercava di sbarrarle la strada.
Non fu così. Molte volte si ritrovò sola, si sentì vulnerabile, fragile, indifesa.
Con gli anni, si rese lentamente conto, che non sarebbe mai stato così.
Crescendo, capì che anche i supereroi hanno i loro punti deboli, anche i supereroi possono ferire, tanto. E le ferite bruciano, e a volte restano addirittura indelebili.
Perfino i supereroi possono deluderti, anche se da piccolo, pensi non sia possibile.
E anzi, forse i supereroi non esistono nemmeno.
Sono solo l’illusione di un bambino.

“… potresti dirmi sorellina in cosa credi tu. Cosa speri, cosa sogni, da grande che farai. Se ti blocchi contro il vento o spingi più che puoi. Che paura, certe notti ti senti sola mai, così sola da non poterne più. Se hai bisogno d'affetto, se ne hai bisogno come me.”


lunedì 28 novembre 2011

One Day: l'opera di David Nicholls secondo Lone Scherfig


Alla fine ho ceduto alla tentazione, contrariamente a quanto avevo affermato alla fine di questo post e mi sono arresa a One Day. Spinta dalla curiosità ho deciso di provare a guardare il film, nonostante io resti sempre delusa dalle trasposizioni cinematografiche dei miei romanzi preferiti. E anche in questo caso, purtroppo, non posso ricredermi del tutto.
Partendo dal presupposto che reputo il racconto di David Nicholls uno dei migliori libri della letteratura post-adolescenziale degli ultimi dieci anni, stavolta l’impresa era forse a dir poco impossibile.
An Education, precedente opera di Lone Scherfig, mi era piaciuto particolarmente, soprattutto per lo stile adottato dietro la macchina da presa, e anche in questo caso, devo ammettere che il risultato è ottimo: ciò che non mi ha convinto di One Day, infatti, non ha nulla a che vedere con lo stile registico, ancora una volta preciso e fluido, originale e delicato.
Contraddistinto da un’ottima fotografia e una colonna sonora ad hoc, il film si avvale di un cast incredibilmente efficace: azzeccatissima la coppia Anne Hathaway e Jim Sturgess, affiatati e convincenti nel ruolo di Emma e Dexter, intensi, realistici e capaci di regalare al racconto un qualcosa in più, determinante per aggiungere alla storia quel tratto distintivo capace di rendere diversa dalle altre.
Ciò che non condivido affatto, invece, è la forma narrativa scelta, ovvero l’idea di ripercorrere la liason dei due protagonisti con brevi e veloci incursioni nella loro vita, ogni 15 luglio, data del loro incontro, nell’arco di vent’anni,
Questa scelta, se da un lato influisce poco sulla trama quando a guardare il film è qualcuno che ha letto il libro, dall’altro invece ne limita notevolmente la visione se a farlo è un neofito, che fatica a seguire l’evolversi degli eventi perdendosi all’interno di alcuni passaggi fondamentali a volte descritti solo da semplici immagini o dettagli quasi impercettibili.
Non mi sento comunque di bocciare in toto la pellicola, soprattutto perché credo esuli brillantemente dai canoni della commedia romantica classica, spesso banalotta e prevedibile, e si differenzia da quest’ultima grazie al tono amaro e nostalgico ricercato, che confluisce perfettamente nell’atmosfera malinconica e ovattato che caratterizza tutto il film.
Forte, a mio avviso, il richiamo al nostrano Dieci Inverni, film del 2009 di Valerio Mieli, con Isabella Ragonese e Michele Riondino, a cui si avvicina molto per le atmosfere intense, la struttura del racconto e il finale struggente, in grado di lasciare un forte senso di vuoto e amarezza dentro.
Uno di quei finali che lasciano l’amaro in bocca e ti esortano inevitabilmente a riflettere sul passato, sul destino e su tutto quel tempo che spesso, senza neanche rendercene conto, sprechiamo, ignari del fatto che mai potremmo tornare indietro e recuperare i minuti perduti con le persone che amiamo.

sabato 26 novembre 2011

Stracult&StraCotti

Stracult e Stracotti - …ovvero la serie che questa settimana va su e quella che inevitabilmente va giù.
Solo su telefilm Cult: parola di Stargirl!

Stracotta della settimana (ma con riserva e la speranza che migliori) quasi del tutto, è Grey’s Anatomy, la serie firmata Shonda Rhimes, che da tanti anni ormai ci fa ridere, piangere, disperare, emozionare, giunta quest’anno all’ottava stagione. Punta di diamante della Abc, il medical drama ambientato a Seattle, con il passare degli anni ha cominciato, come era già accaduto in passato a E.R., a perdere lentamente personalità, scavandosi la fossa da solo e precipitando in un burrone pieno di intrecci e situazioni ormai viste e riviste. Fino a oggi, tutto accadeva sempre per un motivo al Seattle Grace, ogni decisione implicava una conseguenza, ogni scelta personale si scontrava inevitabilmente con ciò che il destino aveva in serbo per i protagonisti. Ora sembra non essere più così, e un’accozzaglia di eventi banali e prevedibili ha rubato il posto a storie coinvolgenti e spesso alcardiopalma, in cui la vita di ogni singolo personaggio andava a intrecciarsi a quella dei pazienti e in fondo in fondo anche un po’ degli spettatori, instaurando un’intesa difficilmente riscontrabile in altre serie. Eppure ormai, sembra che la serie sia arrivata a un punto distallo, incastrata in un contesto che non le si addice più. Priva di colpi di scena, di trovate brillanti o storyline affascinanti. Solo l’ultimo episodio, Dark Was the Night, ha dimostrato che lo show ha ancora molte carte vincenti da giocare, bisogna solo vedere se sarà in grado di mettere a segno la mossa giusta, per recuperare il tempo perso in questo inizio di stagione.

Vuoi scoprire di qual è invece lo Stracult della settimana? Corri su Telefilm Cult per scoprirlo!

giovedì 24 novembre 2011

Ginnaste - Vite Parallele: in bilico tra gioie ed emozioni



Massima concentrazione, muscoli tesi, adrenalina a mille: così ogni sportivo affronta una gara. Sudore e fatica, giorno dopo giorno, per raggiungere un unico obiettivo: la vittoria.
Sacrifici, sconfitte amare da mandare giù, una gioia immensa a ogni traguardo raggiunto: solo lo sport sa regalare emozioni simili.
Negli Usa, debutta poco più di un anno fa, sulla Abc Family,
Make It or Break It, una serie originale e appassionante che ha come tema portante la ginnastica artistica.
Lo scorso 15 ottobre, su
Mtv Italia ha debuttato Ginnaste – Vite Parallele, un interessante
docu-reality su un gruppo di giovanissime atlete (hanno dai 14 a 20 anni) impegnate nei preparativi per i Mondiali di Tokyo 2011 e le Olimpiadi di Londra 2012.
In differita di un paio di mesi, lo show segue le atlete protagoniste, Carlotta, Betta, Alessia, Giulia, Eleonora, Jessica, Sara
, 24 ore su 24, tra allenamenti al Centro Federale di Milano e trasferte in Italia ed Europa, nel corso di un’estenuante e faticosa preparazione atletica e psicologica.
Giornate complicate, impegnative, a volte
fin troppo pesanti per delle adolescenti, campionesse in erba, sottoposte a una pressione fisica e mentale molto intensa e in certi casi davvero difficile da gestire.
Teenager lontane da casa, dalla famiglia e dagli affetti più cari, che cercano e molto spesso riescono a trovare, tra le quattro mura della palestra, un nuovo “focolare domestico” in cui sentirsi sicure e protette dalle delusioni, dalle loro piccole paure e dai pericoli che lo sport agonistico comporta.
Ideata da Carlo Altinier, Stefania Colletta e Antonella Vincenzi,
Ginnaste – Vite Parallele affronta con estrema cura nei particolari, testi ben scritti e collaudati e una regia vivace (di Sara Ristori) il mondo della ginnastica artistica, uno sport forse poco noto tra il grande pubblico, ma incredibilmente coinvolgente e appassionante, in cui per vincere, occorre sottoporsi a un allenamento costante e severo, senza mollare mai la cinghia o lasciarsi travolgere da altre distrazioni.
Ispirato al libro “
Polvere di Magnesio” (che racconta i luoghi e i protagonisti degli ultimi anni della ginnastica artistica in Italia) dell’ex atleta, oggi giornalista, Ilaria Leccardi, dopo poco più di un mese di programmazione il docu-reality di Mtv ha già raccolto numerosi consensi in Italia, centrando in pieno il target cui si rivolge (donne tra i 14 e i 25 anni) e conquistando anche un pubblico maturo composto da appassionati di sport e reality show.
Un programma diverso e originale che segna una svolta interessante nel palinsesto italiano e in quello più specifico del network: Mtv dimostra ancora una volta di volersi distinguere dal resto della noiosa e banale programmazione della tv in chiaro, che molto spesso degenera miseramente nella tv-spazzatura, e con le “sue” ginnaste, conquista un altro punto.

mercoledì 23 novembre 2011

Cloverfield: molto più di un disaster movie

Un party tra amici per salutare uno di loro in procinto di partire per il Giappone, diventa un teatro degli orrori e una serata tranquilla si trasforma così in una tragedia dagli esiti irreversibili.
Un brindisi d’addio pochi minuti prima che si scateni l’inferno: esplosioni a squarciare il cielo, boati a rompere il silenzio, la terra che inizia a tremare e Manhattan che comincia a sgretolarsi sotto i suoi stessi grattacieli. Un mostro inferocito distrugge la Grande Mela e la statua della libertà “perde” letteralmente la testa.
Questo, in poche righe, il plot di
Cloverfield, (2008) prodotto da J.J. Abrams (creatore di Lost) e diretto da Matt Reeves: 85 minuti di handycam a seguire i protagonisti passo dopo passo nella catastrofe, una scelta rischiosa e azzardata, ideale per creare un senso di immedesimazione totale nello spettatore.
Il film non va a fondo negli eventi narrati, né spiega il perché di alcuni avvenimenti: affianca i personaggi in un ritmo vorticoso scandito da pathos e colpi di scena, disseminando qua e là dettagli a prima vista marginali, ma in realtà determinanti ai fini della trama, proprio come accadeva in Lost.
Cloverfield è molto più di un disaster-movie: non è un film classico ma un esperimento ben riuscito per il grande schermo, difficilmente eguagliabile, un gioiello nella produzione degli ultimi anni.
Nessuna ripresa particolare, né stacchi o musica di sottofondo: un’esperienza cinematografica pura e semplice, che potrebbe tranquillamente essere l’episodio pilota di una serie sci-fi.

Recensione pubblicata su Cubovision.it

martedì 22 novembre 2011

Breaking Dawn: tragicomico flop

Bella e Edward si sposano e dopo anni di lunga ed estenuante attesa, regalano ai fan, adolescenti dagli ormoni impazziti, un paio di minuti di effusioni hot, in una pseudo scena di sesso alquanto insulsa e decisamente ridicola. Bella resta incinta di un ibrido dal nome improbabile “Renesme”, e dopo averlo dato alla luce viene finalmente trasformata, in un vampiro.
Quattro righe, quattro misere righe, per spiegare quello che si sviluppa in quasi 120 interminabili minuti di film.
Il penultimo capitolo della Twilight Saga (diviso in due parti in seguito alla brillante idea di marketing già sperimentata da quel furbetto di Harry Potter), Breaking Dawn – Part 1, è uscito nelle sale di tutto il mondo lo scorso mercoledì, incassando, solo in Italia, 6.240.599 euro nel weekend e 8.993.267 euro in cinque giorni di programmazione, 139 milioni e mezzo di dollari nel fine settimana statunitense e 283 milioni e mezzo
al botteghino internazionale.
Chi mi segue lo sa, non parlo quasi mai di numeri, mi interessano poco. Io guardo la storia, la regia, il cast, la fotografia, tante altre cose decisamente più significative. Ma stavolta non posso non fermarmi a rifletterci su, a cercare una motivazione plausibile a uno scempio simile. Non posso credere che il potere di due bellocci come Robert Pattinson e Taylor Lautner, possa raggiungere vette così alte.
Il film è una vergogna: un susseguirsi di situazioni banali, sequenze noiose e piatte, effetti speciali scadenti e una sceneggiatura a dir poco elementare, che nonostante tutto, riesce a superare di gran lunga la qualità del libro in sé, e questo è tutto dire. Le oltre 700 pagine di quello che mi costa veramente fatica definire “un romanzo”, sono riportate sul grande schermo in maniera fedele e ugualmente soporifera: il triangolo tra Bella, Edward e Jacob non sta più in piedi, la “recitazione” dei tre è un insulto alla decenza, la mimica facciale della Stewart e di Lautner e la loro interpretazione sincopata e meccanica di fronte alla macchina da presa hanno raggiunto i minimi livelli. La matrice teen lascia spazio a tinte vagamente horror, evidenti nella scena cruenta del concepimento del “mostro” nato dall’unione tra la Bella e la “bestia” (che più bella non si può però): la protagonista, ai limiti dell’anoressia, distesa su un letto bagnato di sangue, mette alla luce la nuova erede della stirpe Cullen, e inizia la sua trasformazione in vampiro, mentre Jacob in giardino si lecca le ferite, e Edward prosciuga la pazienza dello spettatore con i suoi sensi di colpa e i suoi discorsi lasciati a metà. Ma neanche il tono macabro e crudo riesce a risollevare il film, che scorre lento sullo schermo lasciando presagire che il capitolo conclusivo sarà forse addirittura peggiore di questo.
Quello che mi domando non è come mai un film del genere possa riscuotere successo, il pubblico giovanile in questo è insuperabile, si sa, e basta poco affinché frotte di teenager invadano i multisala di tutto il mondo: un cast accattivante, una lovestory ingarbugliata e dagli esiti prevedibili, e una colonna sonora ad hoc. Mi chiedo più che altro come Bill Condon, vincitore di due premi Oscar per il suo adattamento di Dreamgirls, brillante sceneggiatore di pellicole come Kinsey e Chicago, presidente della Film Independent e del comitato degli scrittori della Writers Guild of America, possa lasciarsi travisare da un blockbuster del genere. Perché vendere l’anima al diavolo per quattro soldi al botteghino? Perché lasciare che una discreta carriera venga alla fine associata a un indecente filmetto di serie b?
In sala le ragazzine urlano, scalpitano, battono le mani, e il loro comportamento non fa che ribadire ancora una volta l’ascesa di questi nuovi pseudo-divi, e sancire il completo e ormai definito declino del filone vampiresco sul grande schermo. Fortuna che, per gli appassionati del genere, restano ancora True Blood e The Vampire Diaries.



mercoledì 16 novembre 2011

ナナ Nana

"Se fosse possibile azzerare questa vita piena di errori... E ripartire da capo... A cominciare da quale momento corregeresti i tuoi sbagli? Io comincerei dalla notte di neve in cui ci siamo conosciute. Sei l'unica cosa del mio passato che non voglio cancellare"

Nana “Hachi” Komatsu è una ragazza fragile e malinconica, che spesso cerca di nascondere con un sorriso, la tristezza che la pervade. Nana è innamorata dell’amore, ma ha il vizio di scegliere sempre l’uomo sbagliato. Nonostante un’infanzia felice e tranquilla, alcune relazioni finite male, hanno notevolmente condizionato la sua vita. Ha un carattere debole, si lascia influenzare dal giudizio degli altri e spesso si sente sola. Tanto sola. A volte anche troppo, e cerca compagnia senza fermarsi a riflettere. E dispensa affetto anche a chi a volte, non lo meriterebbe affatto. Nana è esuberante, esageratamente ottimista e immensamente altruista. Cerca il lato positivo in ogni cosa, e lo trova sempre, anche quando è impercettibile, lei lo trova e il suo mondo si tinge di rosa. È una ragazza poco riflessiva, parecchio istintiva e incredibilmente sognatrice. Ha un sorriso contagioso, una risata inarrestabile e un atteggiamento un po’ infantile forse, ma incredibilmente dolce. Non affezionarsi a lei, è quasi impossibile: quando incontri Nana Komatsu, cominci a vedere la vita sotto una luce diversa, inizi a notare tutte le piccole sfumature che la rendono speciale, unica. Lei è in grado di cambiarti la vita, di regalarti un sorriso quando meno te lo aspetti, di travolgerti con la sua gioia di vivere. Con Nana nessuno può sentirsi mai solo. Nana in fondo in fondo è triste, si sente incompleta, ma non lo lascia mai trasparire. E quando piange, lo fa in silenzio, per non disturbare nessuno.

Nana Osaki, a soli vent’anni, ne ha viste di cose nella vita. Cose brutte. Ha una vita sbagliata da lasciarsi alle spalle, e poca forza per combattere. Nana si è sgretolata, tante volte, in mille pezzi, e ha cercato sempre con fatica di rimetterli insieme, pur perdendone qualcuno per strada. Non si fida di nessuno, non dà confidenza né si lascia mai andare. È introversa, riservata, eccessivamente pessimista. Il suo cuore è chiuso a chiave, ma la chiave l’ha buttata via, nella speranza che qualcuno, un giorno, riesca a trovarla. Nana è cresciuta da sola, senza chiedere mai niente a nessuno, senza fidarsi delle persone, senza credere in loro. Fuorché del suo grande amore Ren, ma neanche lui è mai riuscito a farla sentire bene fino in fondo. Nana è un’anima irrequieta, insofferente. È distaccata, fredda, spigolosa. Forte e delicata. È alla continua ricerca di qualcosa, ma neanche lei sa esattamente che. Incontrarla non lascia mai indifferenti: è bella, severa, misteriosa. Con uno sguardo riesce a raggelarti e lusingarti allo stesso tempo. I suoi occhi trafiggono, un suo rimprovero fa arrossire, ma nelle rare occasioni in cui ti dedica un sorriso, riesce a scaldarti il cuore. Anche lei piange spesso, e anche lei lo fa in silenzio, per non disturbare nessuno.

Si incontrarono per caso su un freddo treno diretto a Tokyo, in una gelida notte di neve, entrambe alla ricerca di una nuova chance per riscattare la loro vita. Così diverse, eppure così uguali, unite già da un filo invisibile, destinate l’una all’altra, pur senza saperlo. Il legame che s’instaurò tra loro, durò per un lungo, intenso periodo, le unì in maniera imprescindibile e cambiò le loro vite. Per sempre. Nana e Hachi, il sette e l’otto in giapponese, due numeri indivisibili, due anime in una, due cuori alla deriva. Nana e Hachi, che piangono in silenzio, senza disturbare nessuno, ma tenendosi per mano.


"Sai Nana, in mezzo a qualunque folla io mi trovi, in qualunque forma tu appaia, sono certa che saprò sempre ritrovarti... Perciò, per quanto tristi siano le mie giornate, non ti verrò mai incontro a capo chino. Perchè la meta che vado inseguendo, si trova nelle tue mani"


Nana è un celebre manga di Ay Yazawa, autrice giapponese. Dalla serie a fumetti è stato tratto uno splendido anime, trasmesso in Italia su Mtv e su Popcorn Tv.




The Fighter: il trionfo di Christian Bale

Dicky Eklund (Christian Bale) era un pugile scattante e agguerrito, uno che non si arrendeva mai, incapace di gettare la spugna.
Tutti i campioni però, sul finire della carriera, rischiano di perdersi per strada: Dicky per esempio, butta via tutto per colpa della droga. Messi da parte i guantoni, sceglie il crack e cade irrimediabilmente nello sfacelo.
Micky Ward (
Mark Wahlberg) vuole sfondare: sogna di diventare un pugile professionista, uno di cui si parli in giro, uno in gamba. Vuole lasciare il segno, intraprendere la strada verso il successo, cambiare la sua vita una volta per tutte: sbarazzarsi di una famiglia che pesa più di una zavorra e lasciarsi suo fratello alle spalle.
Micky è il fratellastro di Dicky, il suo erede sul ring, l’altra faccia della medaglia.
La loro intensa e drammatica storia è al centro di
The Fighter, strepitoso film di David O. Russel, vincitore di due premi Oscar (miglior attore non protagonista, Bale, e miglior attrice non protagonista, Melissa Leo) e di una lunga schiera di altri prestigiosi riconoscimenti.
La pellicola è l’ennesima riconferma dello straordinario talento di Bale, che ancora una volta lascia un segno indelebile nella sua carriera con un’interpretazione di altissimo livello, capace di emozionare profondamente lo spettatore.
The Fighter non è il classico e banale film sulla boxe, è molto di più: è la storia appassionante e travagliata di una famiglia spaccata dall'ossessione del dio denaro e il raggiungimento dei propri sogni
, di un figlio e fratello che vorrebbe seriamente cambiare le cose, ma che in fondo però, non riuscirà a staccarsi dalle sue radici senza pagarne il prezzo.
Christian Bale trionfa ancora una volta, calandosi in un ruolo che sembra costruito apposta per lui, dimostrando, semmai ce ne fosse ancora bisogno, di essere uno dei migliori attori in circolazione a Hollywood oggi.

Recensione pubblicata su CuboVision

domenica 13 novembre 2011

Parenthood: la seconda stagione arriva finalmente in Italia


Per tutti gli appassionati di family drama dal 13 novembre, sul canale Joi di Mediaset Premium, i nuovi esclusivi episodi di Parenthood, la splendida serie che ha per protagonisti Peter Krause e Laren Graham.


I Braverman, famiglia strana, complicata: calorosi, istintivi, un po’ invadenti. Affettuosi, estroversi e caparbi, chi più, chi meno. Facile affezionarsi ai loro, difficile quasi farne a meno.
Perché le loro storie, emozionanti e vere come poche altre, toccano le corde dell’anima, riescono a commuoverci e coinvolgerci nelle disavventure e nelle gioie di tutti i giorni.
Perché guardando Parenthood, anche noi ci sentiamo parte di quella grande e a volte stramba famiglia, proiettiamo su noi stessi i loro drammi ed esultiamo con loro a ogni traguardo raggiunto.
Li avevamo lasciati, al termine della prima stagione, in bilico tra gioie e dolori, a barcamenarsi tra i problemi dei più piccoli, adolescenti turbolenti e un po’ scapestrati, e quelli dei più grandi, donne e uomini spesso in conflitto con la vita e i problemi che questa gli pone davanti.
Tratta dall’omonimo film diretto da Ron Howard nel 1989, la serie nasce da un’idea di Jason Katims (Roswell, Boston Public, Friday Night Lights) e come punti di forza vanta un cast eccellente (Peter Krause, Lauren Graham, Craig T. Nelson, per citarne alcuni) e una sceneggiatura ben strutturata ed estremamente curata, una fortunata scelta autoriale che rende il telefilm una delle migliori prime time novel degli ultimi anni.
Si sente poco parlare di Parenthood, troppo poco, soprattutto in Italia, nonostante l’ottimo successo riscontrato negli States, dove ogni episodio, trasmesso dalla Nbc, è seguito da circa 6 milioni di spettatori ogni settimana. E allo stesso tempo, non è semplice parlare di questa serie, poiché si rischia di cadere nella retorica, di risultare banali e di non rendergli affatto giustizia. Non è il classico family drama cui siamo abituati, non è incline al semplice trionfo dei buoni sentimenti dai risvolti disneyani, ma anzi, con il giusto occhio critico e una minuziosa osservazione della società contemporanea, affronta tematiche complesse e allo stesso tempo comuni, senza scadere mai nella banalità. E certo i Braverman non saranno gli strampalati Gallagher di Shameless, ma riescono comunque a far ridere quando ce n’è bisogno e a commuovere senza mai oltrepassare il limite.
Se la prima stagione era servita più che altro a scattare una fotografia d’insieme, la seconda è utile invece a scavare più a fondo in ogni singolo, a mettere in evidenza i difetti e i pregi dei protagonisti, le loro fragilità, i loro punti deboli.
Al centro della maggior parte delle storyline, ancora una volta, il maggiore dei quattro fratelli, Adam (Peter Krause), il più coscienzioso, il più concreto, quello meno incline a commettere errori. Eppure è proprio lui, ora, quello più in crisi, costretto a badare ai problemi di tutti, sempre attento a non far gravare i suoi di problemi, sulle spalle degli altri, perché Adam non chiede aiuto, Adam risolve tutto da sé, sempre. Un carattere forte, un cuore grande e un’infinita pazienza, fanno di lui il vero “capofamiglia”, nonostante la figura autoritaria e forte di suo padre Zeek (Craig T. Nelson ). In costante conflitto con il figlio Max (Max Burkholder) affetto dalla sindrome di Asperger e con la primogenita Haddie (Sarah Ramos), alle prese con i classici problemi dei teenager, tra problemi amorosi e porte sbattute in faccia a ogni litigio, Adam può contare però sul valido aiuto della moglie Cristina (Monica Potter), nei piccoli problemi quotidiani che metteranno a dura prova la stabilità della loro famiglia, soprattutto a metà stagione, a partire dall’episodio 11, Damage Control, che li vedrà coinvolti in una decisione sofferta e difficile.
Ben avvezza ai problemi degli adolescenti in crisi, anche la secondogenita dei Braverman, Sarah (la Graham): una trentaseienne con poca autostima, madre single di due teenager, Amber (Mae Whitman) e Drew (Miles Heizer), donna fragile ed emotiva, perennemente insicura ma estremamente estroversa, è abituata a cavarsela da sola in ogni situazione e incline a nascondere le proprie emozioni e paure per non allarmare le persone a lei care. Questa stagione la vede protagonista più di altri, poiché rappresenta un importante momento di transizione nella sua vita, una fase di passaggio necessaria per lei, per andare avanti e non restare ancorata ai suoi fallimenti e al suo passato. Molti ostacoli per Sarah, a livello professionale, personale, familiare: due figli da crescere da sola, le difficoltà al lavoro, il ritorno improvviso e inaspettato dell’ex marito (in Just Go Home), una chance concreta per realizzare uno dei suoi più grandi sogni. Ancora una volta Sarah sarà messa a dura prova, e anche se ogni tanto verrà a mancarle la forza, troverà sempre un modo per riemergere a testa alta da situazioni spiacevoli e ostiche. Al suo fianco nei momenti critici, la sorella Julia (Erika Christensen), avvocato brillante, madre incompresa. Forte del suo rapporto col marito Joel (Sam Jaeger), Julia sta però attraversando un periodo critico della sua vita, incapace di instaurare un legame solido con la figlia Sydney (Savannah Paige Rae), che trascura per gli incessanti impegni di lavoro e la triste scoperta di non poter più avere figli (in Taking the Leap), notizia che la turberà notevolmente, distruggendo in mille pezzi il suo sogno di costruire con Joel una famiglia felice e numerosa.
Ultimo, ma non per questo meno importante, Crosby (Dax Shepard), il quarto dei fratelli, la pecora nera, l’anima rock della famiglia Braverman, quello che in sostanza “canta fuori dal coro”. Impossibile non affezionarsi a lui, impossibile non perdonargli qualsiasi errore. Inevitabile fare il tifo per lui, a ogni battaglia persa, a ogni caduta. Perché sì, Crosby sbaglia, forse insieme a Sarah, è quello che sbaglia più di tutti in questa grande famiglia, ma è anche l’unico che riesce a farsi un esame di coscienza all’occorrenza, l’unico capace di chiedere “scusa”, umilmente, con il cuore. È il personaggio dalle mille sfaccettature, quello che fa due passi avanti per poi farne cinque indietro, lo stesso che con fatica riesce a conquistare la donna che ama, Jasmine (Joy Bryant), per poi disintegrare il loro rapporto a causa di una scappatella di poco conto (Amazing Andy and His Wonderful World of Bugs). Crosby delude tutti, anche se stesso, ma non si arrende mai, e cerca sempre il modo di salvare la situazione, anche se è inutile provarci, anche se è troppo tardi. Lui ci prova, e spesso ci riesce, ed è per questo che non si può non parteggiare per lui.
Negli States Parenthood è giunto ormai a metà terza stagione, qui in Italia invece, potremmo assistere alla season première della seconda, dal titolo I Hear You, I See You, domenica 13 novembre su Joi. Segnate la data sul calendario, e non perdete l’appuntamento: una volta entrati in casa Braverman, non vorrete più uscirne.

Per info, photogallery e altro ancora, clicca su Movieplayer.it!

venerdì 11 novembre 2011

Fotografie della tua assenza




Ritrovo per caso vecchie fotografie che neanche sapevo di avere.
A volte il destino, gioca veramente sporco.
Tu pensi di aver dimenticato, credi che la ferita si sia finalmente, o almeno un po’ rimarginata ma non è affatto così. 
E lui è lì, scaltro e cinico, a ricordarti cose che avresti preferito lasciare nel dimenticatoio, pronto a sbeffeggiarti, ancora una volta, a prendersi gioco di te.

Scorro una a una quelle vecchie foto, senza quasi rendermene conto.
Sento le lacrime salire, gli occhi bruciare.
Un nodo mi stringe la gola, ma non riesco a smettere.
Sono autolesionista.
Sono recidiva.
Lascio che la malinconia mi travolga.
Lascio che la ferita bruci.
Lascio cadere le lacrime.
Ogni tanto serve.
Anche se fa male.


"Sometimes it's faded

Disintegrated
For fear of growing old
Sometimes it's faded
Assassinated
For fear of growing old"



Placebo – This Picture






mercoledì 9 novembre 2011

Misfits: come Nathan nessuno mai



Non avrei mai pensato di dirlo, mai e poi mai, eppure sto per farlo davvero: mio amato
Misfits, non ci siamo.
Dopo due stagioni brillanti, anzi sfolgoranti, originali, uniche nel loro genere e totalmente dissacranti, tutto (o quasi) sembra sparito.
Dov’è lo humour cinico e sagace? Dov’è finito tutto quanto? Cos’è questa roba? Perché?
Partiamo dall’inizio… Psicologicamente ero quasi completamente pronta, ad affrontare una stagione senza Nathan (l’impareggiabile
Robert Sheehan): più volte mi sono ripetuta “Misfits ce la farà, gli renderà onore, andrà avanti a testa alta anche senza di lui”.
Mi sbagliavo. Parecchio.
Nulla contro l’altrettanto talentuoso
Joseph Gilgun (visto di recente nel meraviglioso This is England), subentrato a Robert nel cast, nel ruolo dell’eccentrico Rudy. Anzi.
Rudy è il degno erede di Nathan: sboccato,
borderline, innamorato delle donne (tutte) e del sesso (forse fin troppo), strafottente.
Proprio come Nathan.
Troppo come Nathan, è questo il punto.
Che senso ha, dico io, sostituire il personaggio principale (perché diciamocelo, con tutto il bene che voglio a Simon [
Iwan Rehon], Nathan ha trionfato per due stagioni senza rivali), con un altro così simile a lui? A che scopo? Inevitabile poi dilungarsi in paragoni sterili e inutili. Perché introdurre una figura che ricorda così tanto quella del compianto beniamino di tutti i fan praticamente? Perché sottoporre il buon Gilgun a una tale tortura?
Che poi per carità, al termine di questi due episodi, l’unico che è riuscito a farmi sorridere un po’ e a tenere in piedi il ritmo della serie, secondo me è proprio lui.
Ma questo è un errore madornale a parer mio. Fin troppo.
Oltre al fatto che, anche la storia dei nuovi poteri, ma come l’hanno gestita?
Ora, detto tra noi, ma che potere è quello di Kelly (
Lauren Socha)? Ingegnere aerospaziale?
Ma stiamo delirando?
“Ciao sono Superman 2.0, la versione contemporanea del vecchio Clark Kent. No, io non volo, quello era l’altro. Ho scambiato il mio potere: io sono un cervellone esperto di scienza molecolare”.
Ma per favore! E Curtis (Nathan Stewart-Jarrett)
? Il suo super-power è quello di trasformarsi in una donna. No, non ci siamo proprio. E se già il primo episodio mi aveva convinta poco, il secondo mi costringe, mio malgrado, a girare il pollice in giù.
Non c’è continuità nell’insieme. Le storyline verticali si esauriscono nell’arco di un singolo episodio, e ciò crea una frammentazione della trama fastidiosa e poco coerente. A due puntate dall’inizio, manca ancora un plot orizzontale che crei quella coesione tra i personaggi necessaria a suscitare l’interesse dello spettatore. L’umorismo ha cominciato a scadere nel volgare, ha perso quel brio che lo aveva reso unico nel suo genere: si degenera ormai in battute a sfondo sessuale, fin troppo, per riscuotere una risata che alla lunga, risulta solo forzata.
L’impressione che ho avuto, almeno per ora e spero vivamente che Misfits riesca a sbugiardarmi nelle prossime settimane, è che la serie si sia “seduta sugli allori”, un po’ com’è successo a
Glee, a Grey’s Anatomy e a molti altri: forte del successo ottenuto precedentemente, si resta bloccati in uno schema ormai predefinito, che però corre il rischio di cadere nello stereotipo. E gli stereotipi finiscono per annoiare.
E questo errore, da Misfits, proprio non me lo aspettavo: una serie così fresca, giovane, innovativa, scivola così, senza prestare attenzione, su una banale buccia di banana?

Stargirl ft. Cubovision




Da qualche giorno, mi trovate anche sul blog di
Cubovision
, la webTv di Telecom, dove per chi fosse interessato, è possibile acquistare gli episodi della nuova stagione di Grey’s Anatomy (l'ottava per l'esattezza) in lingua originale con sottotitoli in italiano, a sole 24 ore di differenza dagli Usa!

Qualche spoiler? Leggete qui e qui!

martedì 8 novembre 2011

Dai libri alle serie tv



Da sempre cinema e letteratura camminano di pari passo.
Saghe, epopee e romanzi best seller, sulla scia del successo riscosso su carta, vengono trasformati in lungometraggi per il grande schermo, in grado di coinvolgere un numero sempre maggiore di persone.
Il più delle volte, il risultato non è dei migliori, e salvo rarissimi casi, si resta sempre delusi dopo la trasposizione cinematografica dei nostri libri preferiti.
A me è capitato con
Romanzo Criminale e Caos Calmo, solo per citarne alcuni noti al grande pubblico, che nonostante gli ottimi incassi al botteghino, hanno tradito notevolmente le mie aspettative. Altri invece sono riusciti a stupirmi laddove sembrava impossibile, è il caso de Il Signore degli Anelli, Quei bravi ragazzi, Sleepers.
Un legame indissolubile, quello tra Hollywood e la carta stampata, che da qualche anno a questa parte si è esteso anche al piccolo schermo, in seguito al dilagante successo ottenuto dalle serie tv.
Molti oggi i telefilm ispirati, a volte in grande altre in minima parte, a best seller di autori più o meno famosi, come
Candace Bushnell, che con il suo Sex and the City ha dato il via a una serie di prodotti particolarmente amati dal pubblico femminile. Dopo la saga di Carrie, Miranda, Samantha e Charlotte, che per sei stagioni ha catturato l’attenzione di milioni di fan in tutto il mondo, è stata infatti la volta del trio di Lipstick Jungle (della stessa autrice), Wendy, Nico e Victory, meno fortunate delle loro cugine, decisamente più divertenti e navigate.
A Lipstick Jungle, chiuso dopo due stagioni appena, è andata male, e le tre quarantenni di Manhattan non sono risultate abbastanza convincenti per sopravviver sul piccolo schermo, a differenza di un gruppo di teenager dello stesso “quartierino” della Grande Mela, che ancora oggi spopola sulla CW:
Gossip Girl. Tratta dalla collana di romanzi di Cecily Von Ziegesar, pubblicati in Italia con il nome Bad Girls, la serie è giunta quest’anno alla quinta stagione, e pur essendo calata notevolmente di tono nella sceneggiatura, nei dialoghi e nella regia, continua a mietere un ottimo numero di spettatori su un network giovane come la CW.
Sulla scia del successo di Gossip Girl, è stato poi il turno di un altro gruppetto di adolescenti tutto pepe, intrighi e sotterfugi, Aria, Hanna, Spencer ed Emily, le ragazze di
Pretty Little Liars, basato sull’omonima serie di libri di Sara Shepard, in onda sulla Abc Family dallo scorso anno.
Più di nicchia e per un pubblico indubbiamente più adulto,
Secret Diary of a Call Girl – by Belle de Jou, (Diario di una squillo per bene), serie britannica trasmessa da IT2 (in Italia su Fox prima e Cielo poi), che ha per protagonista una carismatica e ironica escort d’alto bordo, che regala allo spettatore un quadro fedele e senza veli della vita di una prostituta inglese con una grande fedeltà tra romanzo e telefilm e pochissimi passaggi modificati dagli sceneggiatori. Diverso il destino dei romanzi di Jeff Lindsay, che hanno ispirato un capolavoro della tv come Dexter (HBO) dove però, aldilà del plot, pochi elementi della storia originale sono rimasti intatti, a partire dalle storyline parallele dei personaggi secondari fino a ritocchi più profondi nella struttura principale.
Sul lato fantasy, potrei elencare moltissimi romanzi diventati prodotti televisivi, ma mi limiterò a citare i più importanti e significativi, a partire da
True Blood (HBO), ispirata al Ciclo di Sookie Stackhouse di Charlaine Harris, fino a The Vampire Diaries, altra saga vampiresca giunta alla terza stagione sulla CW tratta da I Diari del Vampiro di Lisa J. Smith. Stesso network e stessa autrice anche per The Secret Circle, una new entry di quest’anno, tratta da I Diari delle Streghe e trasformata per l’occasione in un teendrama però poco riuscito, infarcito di luoghi comuni e situazioni prevedibili e poco elettrizzanti.
Sempre in casa HBO, ha debuttato quest’estate, riscuotendo un incredibile seguito di appassionati,
Game of Thrones trasposizione dei romanzi fantasy di George R.R. Martin, A Song of Ice and Fire, e ultimo ma non per questo meno importante, anzi probabilmente il migliore degli ultimi anni, The Walking Dead, dall’omonima serie a fumetti firmata Kirkman e Adlard, che lo scorso anno ha debuttato sulla Amc conquistando un’incredibile e inaspettata schiera di fan.
Di produzione italiana invece,
Romanzo Criminale, dal romanzo di Giancarlo De Cataldo, la storia romanzata della Banda della Magliana, che con due stagioni appena, due stagioni a dir poco eccezionali, è riuscita a lasciare un segno indelebile nella produzione di fiction italiane degli ultimi anni.